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Nella recente ristampa del libro di John McEnroe il talento newyorkese rimarca un aneddoto significativo. Durante gli anni ottanta, dopo aver perso sette volte consecutive contro Ivan Lendl, dice di aver ricevuto una telefonata dal vecchio campione Donald Budge, primo tennista a realizzare il Grande Slam nel 1938.


Budge è stato anche un grande coach, autore di libri sull’arte del gioco e del suo insegnamento. Il mitico Donald rivolgendosi a Mac disse: “Caro John ma non vedi che Lendl ci va a nozze quando lo fai correre negli angoli? Gioca al centro”. Detto fatto McEnroe vinse le successive sette sfide. Morale, il numero uno del mondo era in grado di analizzare le proprie partite? Chissà! Dopotutto il libro di McEnroe risulta inutile per migliorare la conoscenza e il livello del proprio tennis.
Queste sono le sconcertanti parole portate alla mia attenzione da un appassionato maestro di tennis. Sorgono spontanei alcuni interrogativi. Per quale motivo un campione viene riconosciuto dall’universale come esperto assoluto della disciplina che pratica? Siamo certi che il campione sia un autentico depositario della scienza del gioco? Le esperienze maturate dal campione, oltre a renderlo un testimone privilegiato, lo trasformano automaticamente in insegnante competente o in studioso esperto della sua disciplina?
Ricordi di gioventù mi rimembrano di aver visto giocare John McEnroe diverse volte, anche dalle tribune del Centre Court nell’anno mirabilis 1981, durante un quarto di finale contro il sudafricano Kriek. Ricordo che mi trovavo nel Vaticano del tennis (cit. Giorgio Bassani) proprio dopo aver perduto nei quarti del torneo juniores contro un diavolo mancino francese di nome Henry Leconte.
Ricordo che McEnroe si affermò ai vertici proprio in quegli anni a poco più di vent'anni di età.

John McEnroe, in arte Super Mac, sfoggiava un tennis sublime che pareva provenire dall’epoca classica del gioco, per intenderci dagli anni di Tilden, di Budge, di Kramer per arrivare fino a Rod Laver, il mito del giovane Mac. E John, dal tiro mancino come l’inarrivabile Rod, arrembava la rete come un pirata all’arma bianca rifiutando con sdegno il gioco muscolare che si stava imponendo.

Super Mac ha avuto importanti maestri che lo hanno forgiato. In via principale il messicano Tony Palafox e soprattutto Pancho Segura, un ex pro di taglia minuta ma nel contempo di statura titanica come campione ed esperto di tennis. Probabilmente il giocatore latinoamericano più forte di sempre.

Little Pancho era stato anche il riferimento formativo di molti campioni passati dal dilettantismo al professionismo nell’epoca della Troupe Kramer. Quando negli anni cinquanta e sessanta il tennis era diviso in due mondi. Per l’appunto quello dei dilettanti e dei professionisti.

Super Mac dopo aver superato ostacoli come Borg e Connors era diventato il number one e viaggiava nei tornei già da tempo senza Little Pancho, ma bensì con tecnici di ventura.
Strada facendo si era arenato contro Lendl fin quando arrivò la telefonata di Budge calata dall’alto come la “Provvidenza”, direbbero oltre Tevere.

Com’è possibile che un signore del lontano passato agonistico, seppur grande campione, la sapesse così più lunga di Super Mac? A tal proposito Bill Tilden scrisse: “Guardare i campioni è utile, ma studiare il gioco conta di più”. E aggiunse: “I campioni sono i magnifici interpreti dell’arte del gioco, un arte che però esprimono in modo inconsapevole. I campioni non sono i depositari della scienza del tennis perché, salvo rare eccezioni, non sono buoni studenti”.

Eppure il Super Mac televisivo e capitano di oggi al confronto con altri pare tutt’altro che uno sprovveduto. Dunque, se il grande Mac risultava già così in affanno sul piano delle conoscenze rispetto a Budge, quale percorso ha adottato per colmare il gap, sempre che lo abbia colmato?
Vien da pensare, chissà in quale stato dell’arte navigano i libri di tennis scritti dai campioni contemporanei e chissà quale livello di conoscenze vengono riversate nei percorsi formativi dei giovani talenti di oggi.

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Tornando alla sorgente, quindi indietro nel tempo per un breve momento, potremo osservare la situazione con altra prospettiva. Di fatto la maggior parte dei tennisti di ieri possedeva un proprio tennis, un personale stile di gioco e una capacità, malgrado i limiti dei materiali, di elaborare risposte funzionali sul piano strategico tattico, riuscendo a esprimere tennis.

Attualmente invece pare che l'evoluzione abbia portato verso la generale e progressiva standardizzazione dei giocatori e alla comparsa della specie homo tennistico robotico.
Modello Giuditta! Direbbe quel piccolo diavolo di Benigni, ma purtroppo si tratta di ben altro.

Trattasi di individuo super atletico quanto monocorde che conosce e recita a pappagallo un solo spartito. Oltre questo orizzonte non si riconosce neanche per nome e, se le cose non risultano come da programma, sembra sperduto come un neofita al primo giorno di scuola.

Un esempio pratico che ritrae questa fotografia surreale la abbiamo da poco vissuta nella finale degli US Open tra il leggendario Rafael Nadal e il gigante buono Kevin Anderson di 203 cm di statura. Le dame preferisco lasciarle momentaneamente da parte per motivi di galanteria.

Orbene, il buon Kevin dal servizio esplosivo aveva il compito di contrastare il favorito Rafa e regalare agli appassionati paganti se non una sorpresa almeno una partita. Egli viene dalla fucina universitaria statunitense. E’ un giocatore pragmatico che sa far leva sui propri punti di forza. La sua fisicità è imponente e lo rende un martellatore pneumatico dal gioco essenziale.

Un giocatore talmente essenziale che evaporata la sua mono-idea di gioco (spartito), la partita si è indirizzata nel senso di Nadal senza possibilità di ritorno dopo solo dieci minuti di partita.
Fin dall’inizio il povero Anderson è stato incapace di vedere oltre la rete e tentare di progettare un'alternativa almeno propedeutica a scaldare le emozioni del pubblico. Incapace a tal punto da abortire ogni possibilità di cambiamento. Ostaggio consapevole di un piano che lo condannava verso una morte annunciata.

Ma il peggio di questa analisi purtroppo deve ancora venire.
In questo deserto del pensiero e di fisicità ipertrofiche il simpatico Anderson è oggi uno tra i giocatori meno sprovveduti e più professionali del circuito. Questo perché malgrado tutto è un tennista che non è mai preda dei propri nervi, non gioca mai contro se stesso e inoltre sa comportarsi da gentelman. Un fatto importante che suscita simpatia e rispetto.

Ciononostante, questi limiti sull’arte e la scienza del gioco da parte di un finalista Slam, ex top ten ATP, non possono che lasciare gli appassionati stupefatti.
Ma la situazione è stata sempre così anche nel passato del tennis?

Innanzitutto è opportuno sapere che i campioni di un tempo a fine carriera si traducevano in insegnanti provetti. L’improvvisazione era presente in qualche caso, ma costituiva l’eccezione non certo la regola.

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Oltre a qualche scontata biografia, essi scrivevano autentiche opere sulla disciplina a testimonianza del loro sapere. Volumi di sostanza che realizzavano in prima persona o al massimo a quattro mani. Per intenderci nessuno di loro si sarebbe mai sognato di farsi scrivere un libro da qualcun’altro.

Se per ipotesi si provasse a comparare gli antichi libri dei campioni con quelli attuali, chiunque capirebbe che sarebbe come equiparare una slot machine al gioco del bridge.
Questo perché in generale alle figure sportive del passato apparteneva una formazione culturale. Personalità che nella vita avevano anche studiato e non certo online.

Costoro poi, somministravano con sapienza le loro competenze attraverso i libri e il laboratorio di campo. Mentre i grandi colpitori di palle contemporanei parlano ovunque direttamente a masse sconfinate attraverso il moltiplicatore mediatico della televisione.

Il risultato di questa genialità commerciale che ha le gambe corte come le bugie dei bambini piccoli, ha contribuito al concepimento di una società liquida, secondo Bauman. Strada facendo mi auguro di cuore non diventi gassosa. Tuttavia, questo processo non è solo un’esclusiva del mondo del tennis e dello sport in generale che però ha il merito esclusivo di aver realizzato e alimentato il becerismo del tifo. Un genere di consumatore che a mio parere è poco affidabile.
Garantisce la spinta a gonfiare il bilancio di oggi per lasciarti col sedere per terra domani.

Ebbene, la prova provata di quanto detto è possibile verificarla materialmente proprio nei libri.
Esiste però un problema! Il fatto che la stragrande maggioranza della letteratura tennistica è in lingua inglese. Nel nostro paese arriva si qualcosa, ma sempre con diversi anni di ritardo.

Per fortuna alcuni brillanti addetti ai lavori come Gianni Clerici e Rino Tommasi, hanno dedicato le rispettive carriere ad illustrare alcune parti essenziali del tesoro culturale del tennis. Chissà cosa sarebbe successo senza il loro lavoro che comunque non è riuscito a sviluppare nel paese del Rinascimento e della pallacorda il culto del tennis.

Del resto, se l’opera di Clerici500 anni di tennis” è letteraria, quella dell’americano CollinsModern Encyclopedia of Tennis” è giornalistica, mentre quella dell’olandese De BondtRoyal Tennis in Renaissance” è un capolavoro culturale. Per non dire di “Tennis Science for tennis player” del compianto Professor Brody che è mirabile sul piano scientifico.
Quattro libri che chiunque si occupi di tennis, lo divulghi o lo insegni dovrebbe perlomeno conoscere a memoria. Chissà se le cose stanno così!

Infine, per concludere in filosofia tildeniana, intrattenersi sui media e interagire sui social è un buon passatempo, ma se l’intenzione è quella di capire o di crescere allora è tutto diverso.
Leggere qualche bell’articolo o ancor meglio, qualche buon libro, aiuta di più.

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