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Vi parlo, anzi vi scrivo dopo il ritiro, all’età di 41 anni, di uno dei più grandi giocatori Nba degli ultimi due decenni. Uno che dopo aver ‘mollato’ migliaia di triple in tutti i canestri d’America (perfino sul set cinematografico di He got game) ed essersi infilato al dito due anelli, uno a Boston e l’altro a Miami, ha deciso che forse, a 40 anni passati, poteva bastare così. E ha lasciato i parquet senza la monumentale tournèe di Kobe, ma nemmeno nel silenzio di Duncan e Garnett. Ha lasciato ai fan della palla color mattone, ai colleghi, agli addetti ai lavori, al mondo dello sport, insomma, ci ha lasciato una lettera. Sulla busta della lettera c’è scritto due volte lo stesso nome. Ray Allen spedisce a Ray Allen, Dalzell, South Carolina. Ray, 41 anni, scrive a Ray, 13.

Che l’Nba vi interessi o meno non importa, appena potete, leggete quelle righe. Leggete quella lettera. Se non l’avete già fatto non voglio anticiparvi o riassumervi niente, perché da lì niente può essere tolto, niente può essere riassunto. Leggetela dalla prima all’ultima parola perché in quella lettera troverete il senso di una vita intera.

Ma questa è un’altra storia, direbbe un certo avvocato di Milano ai microfoni di Sky.

La nostra, di storia, parte dall’altra costa dell’Atlantico e la palla di cui parleremo più che un mattone sembra un canarino. La nostra lettera non la scriverà un campione affermato, non la imbucherà una leggenda vivente per vederla recapitare ad un se stesso ragazzino, al se stesso con tutta la strada ancora davanti. Sarà uno spettatore anzi, credo un tifoso, a scrivere al se stesso poco più che bambino. Sarà un diciassettenne di cui, cari lettori, dovrete scusare la totale mancanza di imparzialità, a guardarsi indietro di dieci anni. Potrebbe scrivergli più meno così, ad un Alessandro (sì, perché l’ex bambino di sette anni si chiama Alessandro) accovacciato sul tappeto del salotto e completamente perso nel televisore una domenica pomeriggio.

“No, quel gancio mancino a volo non andrà oltre la riga come speri. Sì, entrerà e andrà a nascondersi, sibilando infuriato tra la buca dei fotografi ed i cartelloni della pubblicità. E quel diavolo venuto da Maiorca cadrà sulla terra bagnata di sudore ci si rotolerà (preparati perché la stessa scena la vedrai quasi ogni anno) si metterà le mani trai capelli e scalerà la tribuna per andare ad abbracciare la famiglia. Lo odierai. Odierai i suoi muscoli, le sue urla e quel tremendo dritto uncinato. Odierai persino i suoi smanicati (quelli non smetterai mai di odiarli) e le sue bandane. Adesso lo detesti, ma tra qualche anno finirai per volergli quasi bene e smetterai di pensare a lui come un terraiolo selvaggio.

Ti dico di più, finirai per apprezzare il suo gioco (non preoccuparti, tra un paio d’anni gli smanicati spariranno dalla circolazione) e prima o poi capirai l’intelligenza di quelle rotazioni vertiginose che ora ti sembrano poco più di una barbarie, di una violenza sulla palla.

Ecco. Roger avrà quella faccia delusa che non sei abituato a vedere. E che purtroppo avrà parecchie volte ad opera dello spagnolo prima, e di un ragazzo di gomma prodotto in Serbia che ora non conosci, poi. Ma non ti preoccupare, ti dico ancora una volta. Saranno istanti. Roger tornerà più forte, credici, tornerà più forte ogni volta che un degno avversario riuscirà a piegarlo. Perderà, sì. Perderà partite che sembravano vinte e tu ti arrabbierai, ti arrabbierai maledettamente perché quella faccia delusa non vorresti mai vederla. Ma ti aiuterà a capire questo gioco spietato, diabolico con cui, ahimè, hai appena stretto un patto che niente avrebbe da invidiare a quello di Faust.



Chi, se non un demonio, potrebbe mai aver ispirato un gioco dove la sconfitta è sempre così terribilmente, costantemente vicina? La sconfitta è l’ombra di qualsiasi tennista, e purtroppo, nemmeno Roger fa eccezione, nemmeno tu fai eccezione e lo scoprirai tra poco. Ti prometto che lo capirai prima di quanto te l’aspetti.

Quel ragazzo con la polo azzurra perde addirittura meglio di quanto non vinca. Lo so, sembra un’assurdità, ma lo capirai. Se ne starà in cima al mondo per 302 settimane, come nessuno, vincerà 17 Slam, come nessuno, ma nessuno perde come lui e come lui nessuno perderà.

Tu lo sai, e, fidati, continuerai ad esserne sicuro, che nessuno potrà mai essere come lui in nessun senso. Nessun’altro riesce a strappare il “circoletto rosso” al giornalista in cabina di commento (che scrive da qualche annetto in più di te e che avrai la fortuna di incontrare) e al suo eterno compagno di battaglia. Nessuno esce da quattro ore di scambi sulla terra con i calzini puliti. Nessuno piange sulla spalla del rivale che lo ha appena battuto e poi sorride in quel modo, anche tra le lacrime, dieci minuti dopo aver perso in finale. Nessuno fa sembrare tutto così facile. Rallenta, spara, smorza, recupera, varia, alza, abbassa e probabilmente fa anche tante altre cose per cui un verbo ancora non c’è. Piero della Francesca che turbina alla velocità di Kandinskij.

Invincibile e fragile, divino e incredibilmente umano. Altri due anni e lo diranno finito. Tu non gli credere, non gli credere come non gli credi adesso e come non gli crederai mai.
Quelli come lui non finiscono, mettitelo bene in testa”.

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