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Dev’essere magnifico. Già. Che magnifica sensazione dev’essere guardarsi intorno, vedere quel che c’è e farselo bastare. Ed essere contenti così, rigirarsi questo piccolo mondo tra le dita e mettere su un’aria compiaciuta. Sorridendo, felici di se stessi e di quanto sia piccolo quel mondo. Ci sono persone che hanno un gran talento in queste cose. Sorridono di tutto quel che hanno intorno e gli va tutto benissimo così. Esattamente com’è. Il mondo gli basta e loro bastano al mondo. Può capitare che qualcosa gli sembri sbagliato ed è lì che il loro talento si supera: se qualcosa gli sembra sbagliato nel migliore dei casi si lamentano e vanno avanti come prima.

Ma se c’è veramente qualcosa che non gli va giù, a questo mondo, sono quelli come me, quelli a cui non va bene mai niente. Quelli che vogliono qualcosa, poi un’altra, poi un’altra ancora! Le cose come stanno non gli vanno bene e le vorrebbero diverse, forse ne vorrebbero addirittura delle altre, che razza di pretese! Quelli come me sono l’unica cosa che davvero non riescono a sopportare.

Credete che non ci abbia provato ad essere come voi? Ci ho provato tante di quelle volte credetemi, non ci riuscirei mai. Mi dispiace se continuerete a chiedervi cos’ha che non va quel tizio alto con quello strano maglione che crede di essere chissà chi. Perché, dimenticavo, se voi, eterni soddisfatti vi accorgete di qualcuno di noi a cui non basta mai niente, lo chiamate presuntuoso o folle, oppure cattivo. Il presuntuoso, il folle è solo qualcuno a cui il vostro mondo non basta.

Non sarete mai capaci di sentire il rumore del granello di sabbia che precipita nella clessidra e gli altri giù ancora, il rumore che riempie le mie orecchie sopra ogni altro e che non mi lascia mai andare.

Io so che la clessidra intera non potrà mai bastarmi come so che per voi andrebbe bene anche solo quel granello che non siete nemmeno capaci di sentire scorrere. Per voi non esistono il terrore che la sabbia finisca né la certezza assoluta che i granelli siano troppo pochi.

In un certo senso vi invidio.

Per voi non esiste l’ossessione. Non sapete cosa sia a tal punto da averla additata come una diavoleria qualunque da malati di mente.

Vorrei essere cieco tanto quanto lo siete voi, quel che basta per scordarmi che è proprio l’ossessione l’unica fonte di grandezza su questa terra.

Non c’è grandezza senza ossessione.
Voi non lo capite, e non lo capirete mai, perché niente vi ossessiona.
Io, che di ossessioni ne ho più d’una, vi posso dire che è così.

Vi posso dire che deve fare male, che deve essere una perversione, deve tenere svegli la notte, prendere a pugni nello stomaco, urlare in testa. Deve essere qualcosa che affolla il vostro silenzio e la vostra solitudine. Non è qualcosa a cui pensate tutti i giorni, che vi appassiona, qualcosa che amate. Tutti amano qualcosa, non è quello il punto. L’ossessione non fa parte di voi. L’ossessione siete voi.

Non potete farne altrimenti, non esistereste senza di essa. Dove va, andate voi, perché semplicemente non avete altra scelta.

E siatene sicuri, la porterete nella tomba o chissà, potrebbe essere lei a portarci voi.

La mia, mi ha trascinato in posti che neanche pensavo esistessero. Le persone mi hanno amato e mi hanno odiato per lei, hanno gridato il mio nome, per lei l’hanno bisbigliato.
Mi ha allontanato da tutti, dagli stessi che mi applaudivano.
Eppure ero sempre io. Ero ancora lo stesso Bill, che correva dietro la stessa pallina.
Mi ha sbattuto fino a qui.

Sono vecchio, ma dopotutto sono ancora Bill, sono ancora io, William Tatem Tilden. Lo so perché sto ancora inseguendo due pollici e mezzo d’aria compressa con un po’ di feltro bianco intorno e perché non sono ancora stanco. Perché i maglioni e le cose del tennis sono già nella valigia, perché ci sono cinque racchette già legate e la Packard parcheggiata qui sotto la finestra. Perché c’è questa stanzetta squallida che dopo settimane non ho ancora capito di cosa puzza, perché dopotutto c’è ancora Los Angeles fuori dalla porta.

Lo so che sono ancora io perché porterò le mie cose di sotto, le racchette, la valigia, ottantotto dollari in un portafoglio, il soprabito, perché mi infilerò nella Packard e andrò fino a Cleveland, all’appuntamento con la solita pallina.
Sono ancora io, Bill, lo so, perché non lo sarò più solo quando smetterò di correrle dietro.

 

Chi era William Tatem Tilden

di Luca Bottazzi

William Tatem Tilden, conosciuto con il soprannome di Big Bill è nato a Philadelphia nel 1893. Nessun tennista ha mai dominato la propria epoca dentro e fuori dal campo come questo campione dei ruggenti anni venti, primo tennista a tutto campo dal servizio alla dinamite. Primo americano a vincere Wimbledon con tre allori a Londra, sette titoli in dieci finali ai Campionati Americani (oggi US Open), sette titoli consecutivi in undici finali di Coppa Davis, 95 incontri vinti consecutivamente, sono dati che si commentano da soli. Tilden è stato anche uno studioso e parte dell’élite culturale del suo tempo. Egli ha prodotto centinaia di articoli, alcune opere teatrali e oltre trenta libri di pedagogia, psicologia, statistica, strategia, tattica e tecnica sul tennis che costituiscono i fondamenti dell’arte e della scienza del gioco. Big Bill è stato la prima grande figura del tennis maschile e dello sport internazionale a realizzare e lanciare il professionismo. Un personaggio fuori dagli schemi che fino al suo ultimo giorno ha dedicato la vita al tennis e al suo sviluppo. Muore in solitudine il 5 giugno 1953 stroncato da un infarto in un piccolo appartamento di Los Angeles. Sul pavimento c’era la sua borsa con abiti e racchette, pronta per un’altra partita.

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