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Su una pagina pubblicitaria, qualche mese fa, lo slogan di una marca e la foto della nuova scarpa da tennis. Solo due parole: Players know. I giocatori lo sanno. Ma cosa sanno? Cos’è che i giocatori sanno e che ai non giocatori dovrebbe essere ignoto? Vi è un numero indefinito di risposte alla domanda, e nessuna potrà esservi spiegata a dovere, neanche da chi la sa.

Qualunque siano le capacità descrittive di chiunque sappia la risposta, siate certi che non riuscirebbe a spiegarvela come avrebbe voluto. Qualunque sia la capacità di comprendere di chiunque cerchi la risposta, siate certi che non comprenderebbe se non fino a un certo punto, e finirebbe per dimenticarsi del resto. Se non avete mai messo piede tra quelle otto righe bianche e avete anche solo il lieve dubbio, la curiosità di sapere cos’è che rode nelle teste di quei matti che inseguono palline, dovrete rassegnarvi.

La verità non è comunicabile e non esce da quelle righe.

Se davvero vorrete capire, cercatevi una racchetta e un avversario, giocate, provate, riprovate infinite volte, partecipate ad uno, a dieci, a cento tornei. Vincete una, dieci, cento partite e perdetene altrettante. Se sarete abbastanza coraggiosi da non fermarvi sentirete affiorare, poco a poco, tutte le risposte che volevate. E quei matti che non riuscivate a capire, se non fino ad un certo punto, diverranno senza che ve ne accorgiate gli unici in grado di capirvi fino in fondo.

E saprete anche voi che tra quelle maledette righe tutto, proprio tutto diventa enorme, esagerato. Che lì dentro non c’è via d’uscita. Siete soli davanti al campo che altro non è se non uno di quei grandi specchi deformanti.

Il dolore è insopportabile, la gioia incontenibile, la rabbia indomabile, la paura ingestibile.

Con qualche palla colpita come veramente vorreste tutto sembra girare intorno a voi, ma trafitti da un passante siete nient’altro che una piuma al passaggio di un uragano. Il campo deforma, ingigantisce tutto ciò che sentite, dentro e fuori. Al momento sbagliato un ciglio caduto dietro di voi potrebbe sembrare la causa di tutti i vostri problemi.
Lo specchio farà ogni volta il suo mestiere e vi deformerà. Sempre. Sarà tutto più grande, tutto più forte dentro e fuori di voi. Potrete solo farci l’abitudine e, nonostante tutto, continuare. Capirete che l’anima del gioco è tutta lì, di questo gioco che nient’altro è, se non lo sguardo continuo di uno specchio.

Ebbene, la storia di oggi è quella di un ragazzo classe ’56, venuto dall’impronunciabile Sodertaljie (Svezia) che pareva fatto apposta per reggere quello sguardo di vetro.

A 18 anni appare definitivamente al circuito maggiore, reduce da anni di racchette lanciate, completamente in silenzio. Non una parola. Non esprime nessun tipo di emozione. Non si è mai visto niente del genere prima e dopo. L’espressione è sempre la stessa tra la barba e i capelli biondi alla spalla. Non si sono mai visti neanche quelli, come anche il suo fisico e il suo modo di vivere il gioco. Con lui partono i dritti frontali ed i rovesci a due mani, è l’atleta più veloce, resistente e continuo che il tennis avesse mai visto fino ad allora. È un muro. La stanchezza non sembra toccarlo anche quando gli altri sono sfiniti.

I suoi sono gesti ripetuti quasi meccanicamente e almeno apparentemente senza fatica, il suo è un gioco di sbarramento senza tregua, con lui gli angoli sono esageratamente aperti da ogni punto del campo anche per gli attaccanti migliori. E oltre il campo, diventa un’icona, un divo, un simbolo. Senza dire una parola e senza trasmettere assolutamente niente se non con le gambe e la racchetta.

Quei capelli lunghi e sfolgoranti, le magliette e le fasce Fila, l’invincibilità quasi perfetta: il linguaggio che porta Borg ad ottenere una popolarità mai vista prima è tutto visivo. Insieme alla fortuna di giocare nell’epoca in cui il tennis diventa una moda universale. In quegli anni ’70 il mondo vuole giocare a tennis, vuole vedere tennis e soprattutto, vuole vedere Bjorn Borg, vuole essere Bjorn Borg. Lo svedese è una cassa di risonanza umana per 43 marchi da cui è sponsorizzato e in più, continua a vincere.

Per tre anni lo specchio stesso sembra aver paura. Tre Wimbledon e tre Roland Garros di fila, parte dei cinque Slam sull’ erba inglese e dei sei sulla terra francese in carriera. In quel periodo Bjorn è quanto di più lontano possa esistere da un tennista normale, o perlomeno umano. Vince 5 Wimbledon consecutivi (record eguagliato solo da Federer) con un gioco da terra battuta, all’occorrenza stravolto improvvisando il serve&volley su prato. Oltre tutto, il buco generazionale di erbivori tra Newcombe e il pericolo mancino imminente favorisce le metamorfosi londinesi del taciturno numero uno del mondo.

Ironia della sorte, il dominio di Borg viene spezzato proprio dall’altro fenomeno che mai si era visto e che mai si vedrà, un mancino newyorkese figlio di irlandesi, John McEnroe, esattamente il suo opposto. Per Mac il campo è un palcoscenico e se lo specchio ingigantisce ogni reazione tanto meglio: lui la butta fuori all’istante, magari esagerandola ancora di più. Se Bjorn non sembra umano, John lo sembra fin troppo.

McEnroe arriva al punto di rottura definitivo per l’appena ventiseienne Borg. Per quanto si possa apparire intoccabili, in qualche modo si rimane umani anche sotto i capelli biondi e con la Donnay nera tra le mani. Lo sguardo non regge più lo specchio e lo specchio non si stanca mai di guardare. Con le prime sconfitte pesanti in carriera tutti i sentimenti (con annesse reazioni) che avessero avuto qualcosa di umano in otto anni sembrano tornare indietro, tutti insieme, come un boomerang, dal posto sconosciuto della mente in cui erano stati rinchiusi ad ogni singolo punto. Il fenomeno Borg implode nel giro di un anno e mezzo. Tutto ciò che c’è di umano in lui cade sotto il peso di tutto ciò che non lo è. E ricordiamoci che più il livello è alto, più lo specchio deforma.

Nel 1983 Borg si ritira. A ventisei anni l’uomo crolla sotto il peso della macchina da Slam, sotto l’icona del campione di ghiaccio.

Restano undici Slam, uno sport cambiato per sempre e la leggenda dell’uomo che sfidò lo specchio.

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