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L’erba è sicuramente in grado di favorire maggiormente risultati in antitesi con le classifiche, per le sue caratteristiche peculiari che la rendono, malgrado il tentativo di rendere il gioco più simile possibile su qualsiasi superficie, molto particolare per velocità e altezza del rimbalzo, per irregolarità dello stesso, per attrito in grado di influire sull’efficacia delle rotazioni, degli spostamenti e dell’equilibrio.

Negli anni settanta molti specialisti della terra rossa non giocavano i Championships e alcuni giocatori, per caratteristiche tecniche o per formazione (leggasi australiani) risultavano molto più forti della loro classifica, outsiders attesi, per usare un ossimoro. La superficie su cui è nato il tennis e su cui si disputa il torneo più importante, per diverse ragioni che non staremo qui ad analizzare, nel corso degli anni è diventata sempre meno diffusa e la stagione su erba si limita a meno di un mese all’anno. Borg, vincitore di cinque titoli consecutivi a Wimbledon, non disputava alcun torneo di preparazione, degli uno o due possibili.

I risultati sorprendenti di entrambe le semifinali e della finale dell’ultimo torneo di Halle non sono, però, spiegabili con l’idiosincrasia per i prati dei favoriti, visto che questi sono Roger Federer (sia pure nel corso di una stagione travagliata, tra l’altro aveva vinto abbastanza facilmente con Zverev sulla terra rossa romana), Dominic Thiem, vincitore a Stoccarda del precedente torneo su erba, e il tedesco di origine russa. E solo in parte con lo stato di preparazione a ridosso del torneo più importante (magari per Federer valgono anche altre considerazioni).

Le semi, due confronti generazionali, hanno visto prevalere un giovane e un veterano (anche se di livello - best ranking numero 18 - inferiore a king Roger e attualmente e soprattutto in prospettiva anche a Thiem e Zverev).

 

La finale nascondeva delle insidie ulteriori per il giovane tedesco: prima finale importante da favorito, giocata in patria con un connazionale e rischio di appagamento dopo un risultato di grande prestigio, a cui non di rado segue una sconfitta con avversari più deboli, fenomeno che i decani del giornalismo italiano Rino Tommasi e Gianni Clerici definiscono, efficacemente, prova del 9. Prova spesso insuperabile per atleti con limiti profondi, che colgono risultati importanti, ma episodici, in quanto superiori al loro potenziale e indigesti alla loro personalità. Ipotesi che scarterei nel caso di Zverev.

Anche se la vittoria su Federer può aver lasciato qualche “tossina” ad Alexander il giovane, almeno dal comportamento esteriore, questi sembrava ben determinato e centrato sul compito. E sicuro di sé, tanto da annullare con autorevolezza due match point sul 5-4 15-40 al secondo set, vinto poi 7-5. Per avere la certezza che le cause non siano da ricercare nella paura di perdere, nella nikefobia o in altri aspetti volgarmente definiti “mentali” o “psicologici” ci sarebbe bisogno di poter disporre di dati fisiologici (frequenza cardiaca e respiratoria, tensione muscolare, ecc.) o di raccogliere dati in merito ai pensieri e al dialogo interno, ecc. Non essendo a nostra disposizione ci limitiamo (come spesso avviene nei bar dello sport ma non solo...) ad esprimere la nostra impressione e le nostre convinzioni: la sconfitta ha principalmente radici strategiche e tattiche.

Strategicamente Mayer aveva sicuramente un piano che lo ha portato ad evitare lo scontro sul ritmo, giocando come probabilmente avrebbe fatto il suo omonimo americano Gene: variazioni frequenti, discese a rete con sequenze e situazioni imprevedibili, palle dal rimbalzo basso e numerose smorzate, quest’ultima soluzione non proprio tipica da erba. Queste, a nostro avviso, sono le cause dell’iniziale disorientamento di Zverev, il quale probabilmente aveva un piano strategico meno legato alle caratteristiche dell’avversario. Tatticamente ha stentato a leggere le situazioni frequenti, quindi spesso sorpreso dai drop shot ben mascherati e costretto a giocare su palle basse. Alla fine del secondo set, Zverev ha giocato più back spin, antidoto potenzialmente efficace sui rimbalzi bassi, ma non ha mai messo costantemente i piedi in campo, soluzione rischiosa ma in grado di limitare l’efficacia del piano strategico dell’avversario. Quindi è riuscito a vincere il set, ha finito il match con un bilancio vincenti-errori gratuiti positivo (37 a 33), a differenza di Mayer (25 a 27), ma ha perso.

 

Ovviamente non è dato sapere se, giocando diversamente, il risultato sarebbe cambiato (riteniamo sicuramente di sì se a giocare diversamente fosse stato Mayer, quindi onore al vincitore), ma da quelli che sono i dati disponibili alla vista abbiamo provato a dare una chiave di lettura diversa da “biomeccanici” e “videoanalisti” e non riteniamo che possa essere il cambio di un’impugnatura la via per ribaltare il risultato al prossimo incontro.

 

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