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Non è più tempo di giocare. Forse potrebbe essere questo il riassunto della rivoluzione tennistica degli ultimi 40 anni. Che questo oggetto, in continuo mutamento che abbiamo chiamato jeu de paume, sphairistike, lawn tennis e poi ancora solamente tennis, fosse diventato qualcosa di più di un aristocratico, giocoso passatempo per dame e gentiluomini si era già capito durante il regno di Tilden.

Si era già capito tra le mani dei vari campioni degli anni ‘30, ‘40 e ‘50. Si era già capito con l’assurda divisione tra falsi dilettanti e professionisti in esilio. E con la trionfale apertura dell’Era Open. Già dai Twenties in poi, almeno ad altissimo livello, possiamo parlare di sport vero e proprio. Di uno sport particolare. In cui per prevalere sono necessarie intelligenza, scaltrezza, sensibilità, capacità di invenzione, creatività.

Tutto questo oltre le gambe e le braccia. Con il passare degli anni le combinazioni vincenti di queste caratteristiche, unite ad una crescente popolarità e ad un agonismo fisico e mentale sempre più accentuato hanno contribuito a fare del tennis innanzitutto qualcosa in più di un gioco, poi qualcosa in più di uno sport.

Attraverso le mani e nelle teste dei grandi si è arrivati, ad un certo punto, all’esaltazione parziale o addirittura totale della componente artistica. Ciò che di più meraviglioso, inatteso e geniale potesse essere estratto da un oggetto dotato di manico e corde.

L’esaltazione della varietà, della mutevolezza, dell’orgoglioso presentarsi di questo sport come destinato ad un’élite fatta non più di moneta o di sangue, ma di abilità, coraggio, intelligenza e, diverse volte, di genio. La nascita di interpretazioni diverse e opposte, di stili che rasentano correnti artistiche. E alla nuova élite della racchetta non serve l’albero genealogico. Accoglie i figli dell’outback australiano, i figli di immigrati in terra americana. E i figli dei custodi del circolo.

Il nostro più grande interprete e artista con racchetta di tutta l’Era Open fa parte proprio dell’ultima categoria. Figlio di Ascenzio, custode del tennis Parioli. Se Nicola Pietrangeli è romano di adozione, “Ascenzietto” alias Adriano Panatta è romano che più non si può. È romano quanto può essere romano uno che ti dice di essere stato l’unico a battere Borg al Roland Garros, perché era l’unico sicuro di potercela fare.

Spavaldo, sfrontato, magnetico. E imprevedibile. Immaginate che un giocatore possa davvero perdere e vincere contro tutti. Chiunque altro. Che si chiami Bjorn Borg, Guillermo Vilas, Arthur Ashe, Jimmy Connors o Ivan Lendl non ha importanza. Immaginate un risultato sempre aperto a qualsiasi variabile. Immaginate che il tabellone luminoso dello score possa essere davvero mandato in cortocircuito e ribaltato da un momento all’altro, attraversato da un’ispirata saetta.

La vetta della carriera del figlio del custode arriva di pari passo con il momento più fulgido nella storia del tennis italiano. Successi. Incidenza. Popolarità. Grazie ad una stagione irripetibile, il tennis, per la prima volta in Italia, diventa un fenomeno di massa.
Adriano è campione al Foro Italico, al Bois de Boulogne ed è numero 4 del mondo. L’Italia è campione del mondo. E ad oggi sono trascorsi 40 anni.

La nostra ultima vittoria a Roma. Il nostro primo ed ultimo Slam dell’Era Open. La nostra prima ed ultima Coppa Davis. Nel nostro Paese il tennis non sarà mai più tanto popolare. Mai sentito più vicino di allora.

Tutto ciò non solo per le vittorie, ma anche per via della presa sul pubblico, della magia nel gioco di Adriano, del carisma che anche giocatori più titolati di lui non possiedono, carisma indissolubilmente legato alla sua interpretazione della partita.

È forse uno degli ultimi ad interpretarla in quel modo. Nella seconda metà degli anni ‘70 fa già parte di una specie che potrei definire, più che in via d’estinzione, in via di rarefazione. Mi spiego meglio. I serve&volleyers puri sono in via d’estinzione (se non, al giorno d’oggi, già estinti). La specie alla quale mi riferisco è ancora (come già dopo i ’70) vittima di uno spietato e lento processo di rarefazione. Quella dei giocatori che non solo pensano, ma che costringono a pensare.

Adriano dispone infatti di un servizio incredibilmente efficace e moderno, di un eccezionale gioco di volo, della sovracitata creativa sensibilità manuale, di colpi di rimbalzo solidi, di una risposta spesso non troppo affidabile, ma soprattutto, di un’intelligenza tattica (e una furbizia) non comuni.

L’unico, impervio, sentiero per battere sul rosso Borg, il primo degli automi indistruttibili, si imboccava solo costringendo lo svedese a pensare diversamente. A guardare di meno la palla. A farlo uscire dagli schemi.

C’era, in Adriano, come in Nastase, McEnroe, Ashe, Rosewall e tanti altri, sì un talento che facesse pensare a qualcosa di superiore, ma anche un’intelligenza, una vita oltre il tennis, una vena impressionista, un’odissiaca, creativa capacità di far fronte allo svantaggio e di andare alla ricerca del punto.

Sono diversi dalla maggioranza dei campioni successivi (del dopo-Borg) per le stesse ragioni per cui Ulisse è diverso da Achille.
Tra l’Odissea e l’Iliade ci sono le stesse differenze. Ulisse, più uomo che dio, Achille, più dio che uomo.

In campo vorrei più uomini in preda alla tormenta, anche loro, come noi, alle prese con sirene e naufragi, attraversati da quella scintilla d’astuzia divina, più che semidei indistruttibili e lontani, almeno quando si tratta di giocare.

Sia ben inteso, Achille va onorato e ammirato.
Solo che, ogni tanto, un ritorno ad Itaca non farebbe male.

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