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Scommetto che quel coccodrillo l’avete visto anche voi. Tutti voi, almeno una volta. Le fauci eternamente aperte, il contorno rosso della lingua, la coda ripiegata sul dorso ricamato di verde. L’avete visto anche voi, ci giurerei, aspettare la preda acquattato sul fondale appena un po’ ruvido, bianco di piquet. Solo, unica nota di colore, predatore indiscusso sul grande fazzoletto di cotone con bottoni e maniche.

E scommetto che la maggior parte di voi non ha mai neanche immaginato che cosa potesse nascondersi dietro quel minuto rettile di filo verde. E dietro quel nome sull'etichetta che vi pizzica il collo, dietro quel "Lacoste" nascosto tra piquet e la cucitura del colletto.


Se pensate che in un ragazzo della Parigi anni ’20, esile e minuto, seduto sulle gradinate del Racing Club a prendere appunti frenetici su un taccuino non possa bruciare lo stesso fuoco che ora brucia nei recuperi di un Nadal, siete fuori strada.

Se pensate che negli occhi di carbone, acquosi e tristi di quel ragazzo non possa annidarsi la stessa rabbia, la stessa furia insoddisfatta delle pupille spalancate di un Djokovic in risposta, dovrete ricredervi.

Se siete convinti che dietro le geometrie dei passanti di un liceale francese di novant’anni fa non possa esserci la stessa psicosi, la stessa ossessione che c’è nel lavoro in post basso di un Kobe Bryant, non avete mai veramente capito chi sia René Lacoste.

René, figlio del ricchissimo socio parigino della Hispano Suiza (la Ferrari dell’epoca) frequenta il Lycée Carnot, tra i più illustri della Ville Lumière. E gioca a tennis in tre club diversi.

Ai campionati studenteschi viene schiaffeggiato da un 61 60 di piombo ed è lì, quando il padre insiste perché non sia forse più ragionevole piantarla con quel gioco e dedicarsi ad affari più seri, che René la spara talmente grossa e sembra così convinto di quell’iperbolica promessa, che il padre gli concede altri 5 anni di tennis.

René vuole diventare il migliore del mondo, vuole essere il numero uno entro quei 5 anni, o giurare di smettere. Forse quella promessa sembrava così stralunata, così infantile e presuntuosa da dover essere assecondata da papà Lacoste. Forse, nella testa del genitore, il tempo avrebbe fatto capire al ragazzo cocciuto l’irrazionalità di quel sogno.

Il tempo, la vita, avrebbero bruciato quell’assurda faccenda del tennis. La cocciutaggine del ragazzo si sarebbe affievolita e spenta da sola prima dei fatali 5 anni, soffocata non dalla mancanza d’aria, ma di talento, indispensabile per arrivare a quei livelli. Asfissiata da quel vuoto evidente. Dal non essere di quella scintilla, che il ragazzo, oggettivamente, non ha.

Il giovane Lacoste è consapevole di tutto questo, è già passato per quei pensieri. L’ha sempre saputo di non avere quel destino, scritto davanti a sé. Campioni si nasce, no?

A René non importa. Non gli importa se il suo destino non è quello e non potrà mai esserlo. Lui vuole che lo sia. Lo vuole. Non gli importa di dover passare tante ore in campo da solo, davanti al muro, da dover inventare lo sparapalle per potersi allenare. Non gli importa di dover sudare una Senna di sudore per un’intera carriera.

Per anni scrive di ogni singolo avversario. Li scheda, li analizza, li studia. Produce taccuini di accuratezza estrema, maniacale, con punti deboli e forti, strategie, schemi. René non gioca a tennis, dimostra geometricamente la validità dei suoi teoremi.

Il suo non è un gioco, è una scienza sperimentale applicata con una disciplina bellica e sostenuta da una dedizione al limite del religioso. Alla deduttività dei taccuini salda lo sperimentare ossessivo dell’allenamento. Teoria e laboratorio.

Nel 1927, alternando e mettendo in pratica tutti i teoremi sviluppati, curando la lunghezza, il piazzamento e la rotazione di ogni colpo, il piccolo francese con la volontà d’acciaio e l’ossessione per la pallina abbatte il Campione. Quello con la C maiuscola. Il grande Bill. In finale di Coppa Davis, il ragazzo con quel sogno ridicolo di diventare il più forte di tutti batte Tilden. E la Davis resterà in Francia per altri 6 anni. Dal 1927 al 1933. In barba al mondo intero grazie a René e ad altre tre leggende. 


Henri Cochet, talento puro della rete, schivo, riservato, elegantissimo, una sorta di Athos.
Jean Borotra, dedito al pubblico, istrionico, amante dello spettacolo con racchetta come negli anni ’80 sarà Noah. Atletico, esplosivo, eccentrico. Il perfetto Porthos. 
Infine lo specialista del doppio, l’intellettuale, l’Aramis in pratica, Jacques Brugnon.
Manco a dirlo, Lacoste venne aggiunto in seguito agli ultimi tre. Lui, classe 1905, il più giovane dei quattro, l’esordiente D’Artagnan.

Inutile dire che i quattro moschettieri, guidati dal federale Pierre Gillou, capitano come il signor de Tréville, sono considerati come una delle squadre di Coppa Davis più forti di tutti i tempi. Inutile dire che hanno rasentato l’imbattibilità per anni. Inutile dire che di temibili cardinali armati di racchetta ne hanno bastonati parecchi. Più di quanti ne avesse immaginati anche la penna di Dumas.

René di smettere di sognare non ne volle mai sapere. Dopo 7 titoli dello Slam disseminati tra Londra, New York e Parigi, dopo le coppe Davis e dopo essere stato numero uno, diede un taglio alle camicie con cui si giocava. Le maniche divennero corte, i bottoni divennero tre. Sul petto spuntò il coccodrillo, tratto dal soprannome affibbiatogli da Gillou.

Decise di dare il suo nome alla creazione: Lacoste. Prima allenatore di se stesso, poi sponsor di se stesso.
Fu il primo. L’alloro di Fred Perry e il Jumpman di un certo Michael Jordan sono nati con lo stesso obiettivo.

Uno dei tennisti, forse degli sportivi, più tenaci e intelligenti mai esistiti. E, nonostante la marea di campioni avvicendatisi dal suo ritiro fino ad oggi, uno degli uomini che hanno amato di più questo gioco. Uno dei pochissimi ad aver passato il confine della passione e varcato le soglie dell’ossessione vera e propria.

O forse solo un ragazzo troppo testardo per smettere di giocare. E di sognare.
La prossima volta che vedete quel coccodrillo o che sentite quell’etichetta sulla nuca ricordatevi di lui.

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