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Le vedete quelle racchette frantumate al suolo? L’avete sentito lo stridere di quelle urla, lacerate, isteriche? Vi siete mai chiesti cosa mai ci potesse essere di così rabbioso, di così potente, a far bruciare la fiamma, dietro il carbone di quegli occhi? Vi siete mai davvero chiesti cosa potesse rendere ogni punto, ogni gesto una questione di vita o di morte, ogni istante di gioia incontenibile, ogni reazione fragorosa, plateale, contraddittoria, drammatica?
Cosa spingesse tutto, di quella donna, oltre tutti i limiti? I colpi, i record, le lacrime, i sorrisi, perfino i colori, i capelli?


La Serena che vediamo ruggire, infrangersi, rialzarsi, disperarsi e saltellare con trofei in mano è il risultato di qualcosa che non passa né oltre i cavi della televisione, né al di là dei confini tra un’anima e l’altra. Dai drive che niente hanno mai avuto da invidiare alla maggior parte dei colleghi ATP ad ogni occhiata che niente ha mai avuto da invidiare alla lama di un rasoio, da ogni perlina colorata, unghia smaltata fino ad ogni singolo riccio nero sulla schiena.

Serena è ciò che possiamo vedere, ma soprattutto, ciò che con ogni probabilità, non vedremo mai. Oltre i 22, tra luccicanti piatti e coppe che le abbiamo visto stringere, oltre le infinite settimane sul tetto del mondo che sembrano non dover finire mai, oltre il tennis. È, prima di ogni altra, cosa il fuoco che le brucia dentro e che quasi sempre finisce per divampare anche fuori. In un servizio, in un grido, in un salto come una lingua di fiamma attraverso le finestre di un palazzo in preda all’incendio.

È la rabbia, che inizia ad ardere da qualche parte in fondo all’anima per poi inghiottirla tutta, senza mai bruciarla, senza mai consumarla. È il fuoco che non muore mai, che può solo ardere, ardere senza mai dissolversi, la brace che ruggisce anche sepolta sotto le dune di cenere. È qualcosa di insaziabile, terribile, accecante, che proprio come la fiamma cambia forma e dimensione, ma che a differenza di tutte le fiamme che vediamo, nessuna cenere, nessuna pioggia può mettere a tacere.


Quella fiamma che rende tutto ciò che divora così fragile e così invincibile allo stesso tempo, che contemporaneamente soffia il vetro e forgia l’acciaio.
L’abbiamo chiamata rabbia, l’abbiamo chiamata fame, l’abbiamo chiamata riscatto.
L’abbiamo chiamata con tanti nomi, la stessa (e l’unica) forza capace di far calare sul rumore degli spari di Compton il silenzio del Centre Court.

L’unica forza capace di bruciare tanto più forte quanto più tutto intorno prova a spegnerla. L’unica fiamma che arde tanto quanta più cenere vi si getta sopra.
A 34 anni, già leggenda di questo gioco e dello sport, in possesso di un arsenale di colpi che sono un capolavoro di violenza applicata alla palla, regina incontrastata del circuito, sarà per l’ennesima volta faccia a faccia con l’altra fiamma inestinguibile, quella che da due giorni brucia nell’Estadio do Maracana, all’ombra del Cristo verdeoro.

Quella fiamma olimpica che già le ha visto al collo un record di quattro ori (tre in doppio con la sorella Venus e uno in singolo) in tre edizioni diverse dei Giochi. Un caso? Non credo proprio.
Non sarebbe azzardato ipotizzare che la fiamma di Serena sia (molto probabilmente) la gemella celata ai nostri occhi di quella del Maracana.

 

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