ILTENNIS.COM

La storia del tennis e dei suoi grandi campioni dalla seconda guerra mondiale all’inizio dell’era open

Alla fine del secondo conflitto mondiale il tennis era ancora vivo sotto la macerie dei bombardamenti e questo grazie al fatto che negli Stati Uniti le competizioni non avevano mai cessato di esistere, come durante la grande guerra. Durante gli anni di guerra si erano messi in luce oltre oceano giocatori come Frank Parker e Ted Schroeder, entrambi vincitori nei Campionati Americani.

Intanto, il numero uno americano Bobby Riggs, campione tra i dilettanti nel ’39 prima della guerra era passato professionista e con lui, nel 1946, il tennista sudamericano Pancho Segura che giocava come l’australiano John Bromwich dritto e rovescio a due mani. Segura è stato il primo grande risponditore e colpitore da fondo campo e probabilmente il più grande tennista di sempre senza aver mai vinto una prova dello Slam. Questo fatto accadde perché, per motivi pecuniari, egli passò professionista giovanissimo.

L’immediato dopoguerra fu il momento in cui terminarono i lunghi viaggi in nave sostituiti da quelli in aereo e ciò favorì l’intensificarsi degli eventi tennistici. Ma ancor più, fu l’attimo in cui vennero alla luce due campioni leggendari che hanno lasciato un segno indelebile nell’evoluzione della disciplina. Giocatori che hanno perfezionato il gioco d’attacco servizio e volèe di Ellsworth Vines, affinando l’arma micidiale del servizio e degli approcci a rete.

Il primo a emergere è stato il californiano Jack Kramer che vinse in quel periodo sia i campionati di casa che a Wimbledon, prima di passare professionista nel ‘48. Kramer desiderava portare con se il compagno di doppio Ted Schroeder che però decise di rimanere dilettante. Con Schroeder rimasero a far da guardia alla Coppa Davis per gli Stati Uniti il giovane Budge Patty e i doppisti Mulloy e Talbert.

Pertanto, mentre Jack Kramer incrociava la racchetta con i professionisti Bobby Riggs, Pancho Segura e il grande Don Budge, viaggiando da una parte all’altra degli Stati Uniti, ai Campionati Americani del ‘48 irruppe il secondo grande giocatore di quell’epoca, il giovane cowboy di origine messicana Richard Pancho Gonzales.

Nella successiva finale dei Campionati USA del ’49, dall’alto dei suoi 192 centimetri, Pancho fece fuori in cinque set Ted Schroeder e poco dopo conquistò anche la Coppa Davis massacrando la squadra Australiana.

Gonzales passò professionista nel 1950 all’età di soli ventuno anni e ci rimase per diciannove stagioni vincendo ben dodici titoli Mayor Pro. Pancho Gonzales come Big Bill Tilden, fu un campione che cambiò lo sport del tennis portandolo a un livello superiore. Il suo tennis serve and volley era a dir poco fulminante, la sua personalità e il suo carisma unici.

La carriera di Pancho si rivelerà una delle più lunghe e di maggior qualità nell’intera storia del tennis. Le sfide tra Jack Kramer e Pancho Gonzales, che fu tra i primi a usare racchette di metallo, calamitavano l’attenzione del pubblico. Tra i due però fu Kramer ad abbandonare il campo da gioco per primo per dedicarsi al ruolo di promoter fondando la mitica “Troupe Kramer”.

Nel contempo, nel circuito dilettanti e nella Coppa Davis degli anni cinquanta, si affermarono altri grandi campioni. L’atletico australiano Frank Sedgman dominò tra il ’50 e il ‘52 vincendo il singolare in tre prove dello Slam, mentre nel 1951 insieme al connazionale Ken McGregor realizzò il Grande Slam di doppio. Per questa specialità si tratta della prima e unica volta nell’intera storia del gioco in ambito maschile. Dunque, Sedgman e McGregor subentrarono a pieno titolo al posto dei connazionali Bromwich e Quist come coppia regina del tennis.

In quegli anni le orme di Frank Sedgman furono seguite dall’americano Vic Seixas e soprattutto da Tony Trabert che nel ’55 realizzò tre quarti di Slam mancando al via il titolo australiano. A rimorchio dello statunitense Trabert seguì il canguro Lew Hoad che a detta di molti era imbattibile nella giornata giusta. Nel ’56 Hoad che ricordava il tennis di Budge, arrivò a una sola partita dalla conquista del Grande Slam, fallendo l’ultimo incontro di finale ai Campionati Americani proprio contro il suo compagno di doppio e di Coppa Davis Ken Rosewall.

Parlare del genio di Ken Rosewall è oltre ogni possibile comprensione, ed è per questa ragione che mi limito a riportare solo brevi annotazioni. Il suo gioco comprendeva la fusione di varie arti come quella del rimbalzo di Renè Lacoste, della volèe di Ellsworth Vines e più ancora dell’anticipo di Henry Cochet. Però, a guardar meglio, Rosewall rappresentava più propriamente una evoluzione del folletto francese Cochet. “Non importano le ottime qualità di un giocatore se la mente non controlla ogni sua azione” era una delle massime di Ken.

Per fornire un’ulteriore idea a chi ha la pazienza di seguire la narrazione, aggiungo solamente che Rosewall ha vinto consecutivamente tornei dal 1951 al 1977 senza mai rimanere a secco in nessuna stagione. Tra i professionisti egli stabilì il record assoluto di quindici vittorie nei Mayor “World Pro Championship”, per ritornare successivamente a vincere altri tornei dello Slam in quell’era del tennis open che vedremo in seguito. La carriera di Ken per longevità e qualità può essere paragonata solo a quelle di Pancho Gonzales e di Bill Tilden.

Tornando un passo indietro nel racconto, fin dal principio il piccolo grande Ken vinse tutti i tornei dello Slam da dilettante fatta eccezione del torneo di Wimbledon che lo vide finalista più di una volta. Nella sua prima finale nel 1954 fu superato dal mancino cecoslovacco Jaroslav Drobny che rimase legato al tennis dilettantistico al contrario di Hoad, Trabert, Sedgman e lo stesso Rosewall.

Il passaggio al professionismo nella troupe di Kramer prevedeva un processo di iniziazione particolare. Quando Jack Kramer ingaggiava il campione del mondo dei dilettanti nel circuito Pro lo inviava all’accademia californiana di Pancho Segura presso la Jolla, per affinarne l’arte del gioco prima dello scontro con Gonzales, in modo da evitare brutte figure. Nel mondo dei Pro il livello era ben più elevato, per non dire che era un tennis di un altro pianeta.

Tuttavia, è necessario sottolineare che in quel periodo storico i dilettanti americani che passavano al professionismo erano di elevata qualità, per non parlare di quelli australiani che erano addirittura eccezionali. In Australia si era costituita una grande scuola che sfornava uno via l’altro numeri uno mondiali. Questa fenomenologia dipendeva largamente dal campione australiano degli anni trenta, poi divenuto coach e capitano di Davis dei canguri Harry Hopman.

Nessuna accademia di tennis al mondo è mai più stata produttiva come quella di Hopman in quegli anni. Si trattava di una fucina che costruiva fin dalle basi il giocatore per poi trasformarlo in campione. I tennisti di Harry Hopman hanno vinto tra Coppe Davis e titoli dello Slam, tra singolare e doppio, qualcosa come decine e decine di titoli, credo nell’insieme abbiano largamente superato facilmente le duecento unità. Il sistema Hopman è stato motivo di osservazione per anni, nel tentativo di essere replicato nelle accademie in giro per mondo, senza però mai avvicinarsi lontanamente ai suoi risultati.

Nel frattempo, il tennis fra le dame, aveva espresso dopo la guerra campionesse agguerritissime come Margaret Osborne, Louise Brough, Shirley Frey e Doris Hart, tutte di passaporto americano. Per intenderci, tenniste che a livello di vittorie nei tornei dello Slam tra singolare e doppio vantavano non meno di dieci titoli a testa.

Ciononostante, la stella più splendente di quel periodo fu quella della californiana Maureen Connolly che nel 1953 conquistò il primo Grande Slam della storia in gonnella. Maureen, allieva della grande allenatrice americana Eleanoir Tennant, era riuscita a diventare una giocatrice a tutto campo ancor più completa di Helen Wills. Niente e nessuno poteva fermarla e solo i postumi di una vecchia caduta da cavallo ne accelerò purtroppo il ritiro. Il vuoto che Maureen lasciò sul circuito fu riempito dall’afroamericana Althea Gibbson, la prima nera a vincere a Wimbledon, ai Campionati americani e al Roland Garros.

In seguito, nei primi anni sessanta, nacque la Federation Cup. Questa manifestazione, detta anche “Davis” delle donne, fu voluta ad ogni costo dalla campionessa americana del 1909, 1910, 1911 Hazel Hotchkiss Wightman che presentò alla I.T.F. nel 1962 un progetto dettagliato. L’anno successivo, ottenuto il via libera, venne giocata la prima edizione. Questa avventura riscosse subito un discreto successo. La prima fu appannaggio delle americane che per due lustri palleggiarono il trofeo con le australiane.

In quegli anni brillava il tennis di una solista della racchetta, la brasiliana Maria Ester Bueno che fu di poi superata dalla valchiria australiana Margarte Court, in seguito Smith. La Court era una giocatrice potente, la prima grande figura femminile dal gioco serve and volley che entrò nell’universo tennis perentoriamente infrangendo ogni record.

A contenere l’esuberanza di Margaret intervenne la racchetta dell’americana Billie Jean Moffit, meglio nota come King. Questa era una tennista d’attacco che non possedeva certo la potenza di Margaret Court, ma era dotata di tocco e di agilità superiori. Le sfide tra queste due campionesse colorarono il tennis degli anni sessanta e non solo.

Tra gli uomini, invece, si stavano accreditando nel circuito istituzionale campioni come il più forte dilettante di sempre l’australiano Roy Emerson vincitore in tutti gli Slam sia in singolare che in doppio e il suo connazionale Neale Freaser. Oltre ai due canguri si misero in evidenza l’italiano Nicola Pietrangeli vincitore di due titoli al Roland Garros e Manolo Santana primo spagnolo a vincere a Wimbledon. Quest’ultimo era considerato il più grande giocatore iberico, malgrado il suo connazionale Andres Gimeno fosse passato professionista in giovane età.

Il momento a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta è stato anche caratterizzato dall’introduzione della regola che ha permesso al servitore, da quell’attimo in poi, di poter saltare nella battuta. Un fatto che fino al 1959 era proibito perché durante il servizio bisognava rimanere saldamente ancorati al terreno di gioco almeno con un appoggio. Questa innovazione ha consentito al servizio di diventare un’arma ancor più devastante.

Del resto, quegli anni sono stati soprattutto catalizzati dalle gesta di un mancino australiano rosso di capelli che si muoveva come un razzo, possedeva nervi d’acciaio e destrezza eccezionali. Il suo gioco a tutto campo era completo e mai come nessuno prima, al di fuori di quel mago di Rosewall, riusciva nell’azzardo di ribaltare una situazione compromessa in vincente. Ma più ancora, questo mancino supersonico possedeva maggior potenza rispetto a Ken e una dotazione di genio alla Norman Brookes, quindi, superiore all’universalità di tutti i campioni di tennis.

Quanto scritto è con tutta evidenza il profilo di “Mister Tennis” l’inarrivabile Rod Laver. Il grande australiano del Queensland che realizzò il Grande Slam nel 1962, prima di passare a dettar legge anche tra i professionisti aggiudicandosi in quel periodo ben nove titoli Mayor Pro.

Ad onor di cronaca, va ricordato che il tennis professionistico, lungo il suo cammino, fu costantemente perseguitato dal sistema tradizionale che comprendeva le varie federazioni nazionali sotto il tetto di quella mondiale. La lotta fu dura fin dagli inizi, per intenderci fin dagli anni di Suzanne Lenglen e di Bill Tilden.

Fa comunque pensare come già dalla fine degli anni cinquanta i membri dell’All England Club desiderassero porre fine alla spaccatura tra dilettanti e professionisti. Il loro pensiero era volto a unificare tutti i tennisti sotto la stessa bandiera, per l’appunto quella del professionismo. L’intento era riconoscere ai giocatori i guadagni alla luce del sole per il loro lavoro, riconoscendo la filosofia tildeniana post mortem. Questa spinta fu adottata perché nel tennis dilettantistico giravano molti denari sottobanco e bisognava mettere fine a una situazione che definire ipocrita era un eufemismo.

Il fatto che a sollevare la spinosa questione per primi fossero stati proprio i membri dell’All England Club non sorprese affatto. Del resto Wimbledon fu la culla del gioco e da tempo conservava nel suo importante museo buona parte della storia del tennis. Della stessa idea degli inglesi erano gli americani, i quali oltre ad appoggiare i cugini anglosassoni nella contesa realizzarono negli anni cinquanta il loro museo della “Hall of Fame” a Newport nel Rhode Island. Un’istituzione che immortala le principali figure che hanno caratterizzato la disciplina.

Molti furono gli scontri portati avanti in prima persona da Jack Kramer, divenuto nel tempo l’impresario dei fuorilegge della racchetta, e dal suo amico giornalista francese Philipe Chatrier. Nel 1967 una spallata clamorosa al sistema internazionale la diede ancora il torneo di Wimbledon, il quale annunciò dopo l’evento classico di luglio che avrebbe organizzato anche un torneo aperto ai professionisti. Ebbene, nella tarda estate inglese del 1967 fu realizzatala la competizione che vide Rod Laver superare Ken Rosewall in una memorabile finale che distrusse ogni barriera.

L’organizzazione conservatrice capeggiata dal Presidente della federazione internazionale I.T.F., l’italiano Giorgio De Stefani che voleva il tennis sport dimostrativo alle Olimpiadi messicane del ’68 ad ogni costo, non poteva più respingere l’avanzata del progresso. Caddero così le ultime resistenze e venne trovato l’accordo tra le parti per far nascere l’anno successivo, il 1968, la costituzione di uno sport che aveva aspettato oltre quarant’anni: il tennis open.

Usiamo i cookie per raccogliere statistiche anonime sull'utilizzo del sito