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Cari amici se frequentate i salotti dei tennis club non vi sarà certo sfuggito l’argomento “racchette di legno”. Un tema ricorrente che viene spesso rispolverato. Infatti, in più di un caso hanno preso vita, qua e la, eventi vintage che hanno fatto rivivere antiche emozioni.

Alcuni circoli hanno organizzato tornei riservati a questi attrezzi oramai da museo. Sane competizioni passatempo per amatori, a mio parere più amanti della cultura del gioco che nostalgici. Adunata composta da coloro i quali erano un tempo definiti non classificati. Tra questi si annoveravano arditi combattenti, autentici sportivi e al tempo stesso appassionati rispettosi dello sport individuale più bello del mondo.

Il successo di queste manifestazioni culturali è soddisfacente se pensiamo che si tratta di gare prive di punti per la classifica, unica ragione di vita che invece colpisce la massa dei nuovi praticanti. Per intenderci quelli che sono entrati nel mondo del tennis e delle sue competizioni negli ultimi quindici anni. Un afflusso a cui in generale poco importano le iniziative culturali se non quelle che riguardano i punti per la classifica di quarta categoria. Un'dea istituzionale elaborata per loro negli ultimi tre lustri in vece della denominazione “non classificati” ritenuta da alcuni astuti pensatori poco motivante.

La nuova moltitudine ha trovato spazio di crescita grazie soprattutto ai materiali moderni che consentono a chiunque di muovere i primi passi con facilità. In altre parole se il tennis fosse la matematica, per ottenere il risultato nelle addizioni decimali oggi si usa lo smartphone. Velocità e immediatezza contano più che mai in una società sempre più liquida, per dirla alla Bauman. Che importa conoscere i processi di una materia se la tecnologia fa da se? Per quale motivo devo sforzarmi e pensare se ottengo subito il risultato? Perché e cosa devo imparare se sono già bravo?

La fenomenologia che accoglie la facilitazione con faciloneria non è un’esclusiva del nostro sport, ma nel tennis si manifesta perché molti sprovveduti credono di aver colto l’arte del gioco di immediato e di essere già in grado di saper fare. Ma forse ancora peggio, di essere parte del sogno, quello del fantastico mondo dei classificati, quello che conta. Sulla questione “sogno” lo scrittore Alessandro Barrico, autore del best seller “I nuovi barbari” di cui consiglio la lettura, credo abbia omesso di accentuare la dinamica prodotta dalla magia di questo abbaglio, e quali siano le possibili conseguenze.

Nello specifico, per chi ha voglia di seguirmi, pare si tratti di un fattore dall’attrattiva irresistibile. Per il cosmologo Rovelli è secondo solo alla gravità dei buchi neri, unici elementi in grado di fagocitare qualsiasi cosa, riducendo il tutto al nulla più assoluto. Fortunatamente i buchi neri non esistono sul pianeta terra, almeno nella forma fisica conosciuta dall’universale. Non è da escludere però che possano manifestarsi in altre forme, le più inattese.

 

Ebbene, questo preambolo sta quindi a significare che l’innovazione tecnologia è un aspetto negativo? Assolutamente no. Perché per dirla ancora con la racchetta i materiali di nuova generazione consentono performance prima impensabili, sia per chi compie i primi passi sia per tennisti che giocano addirittura a livello professionale. Infatti le racchette e le corde attuali permettono nel contempo maggior controllo e velocità esecutiva, coadiuvate da palle e da calzature che concedono un equilibrio straordinario. Chi è poco predisposto oggi riesce a trovare una dimensione accettabile per godere di uno sport che forse un tempo avrebbe abbandonato. Pertanto gli aspetti positivi apportati dall’innovazione tecnologica risultano senza alcun dubbio importanti, anche perché hanno reso il tennis per certi versi più completo.

Analizziamo ora alcune differenze primarie tra il tennis di ieri e di oggi. Se osserviamo una situazione di gioco difensiva con le racchette di legno capiamo subito che le opzioni tattiche erano decisamente minori. Ad esempio, l’impiego del pallonetto se si perdeva campo era praticamente obbligatorio. Nel contempo le opzioni in termini di angoli, traiettorie e velocità, erano ridotte anche nella fase di attacco. Se la palla rimbalzava sotto l’altezza della rete non restava che tagliarla. Tutto questo per dire che nell’epoca delle racchette di legno le scelte disponibili erano inferiori. Quindi, per ciascun giocatore era più facile capire l’arte del gioco e i suoi processi. Ovviamente per esprimerla compiutamente dipendeva come sempre dalle capacità individuali, o se preferite, dal talento. Tuttavia, il fatto di averla compresa rimaneva una conquista, un patrimonio di valore assoluto. Oggi invece, grazie all’innovazione dei materiali, le possibilità esecutive sono di gran lunga superiori e le probabilità di potersi confondere maggiori. Quindi l’esperienza e il tempo per acquisirla, giocano un ruolo fondamentale.

Il tennis non è uno sport immediato, neanche per chi è munito del famoso talento. Gli esperti lo definiscono una disciplina sportiva rapida, precisa in condizioni variabili ad elevata difficoltà psicologica e coordinativa. Un tempo i grandi giocatori per diventare campioni maturavano sotto la guida di grandi esperti che hanno fatto scuola nella storia del gioco. Figure che rispondono ai nomi di Bill Tilden, Suzanne Lenglen, Eleanor Tennant, Henry Hopman, Gottfried von Craam, Pancho Segura, Jack Kramer, Jaroslav Drobny, Tony Palafox, Alan Fox, Jon Tiriac, solo per citarne alcuni. Pensate che negli anni cinquanta quando il tennis era diviso tra dilettanti e professionisti, il campione del mondo dilettanti prima di diventare professionista passava sei settimane alla corte di Pancho Segura, in modo da evitare brutte figure al suo debutto nei Pro. Questo suggerisce quanto sia selettivo e complesso il tennis, il gioco della mente e del corpo.

 

Attualmente i giovani talenti del panorama internazionale tennistico sembrano faticare a prendere il volo. Forse non hanno a disposizione figure formative pari a quelle del passato. Oppure rispetto ai loro coetanei di un tempo sono già ricchi e appagati ancora prima di essere diventati dei numeri uno. Ma se osserviamo attentamente il tennis ci accorgiamo che le difficoltà attuali da superare sono maggiori. Altrimenti sarebbero inspiegabili errori sciocchi e ripetuti in situazioni semplici, dove partite quasi vinte vengono di repente smarrite. Questi aspetti, di natura strategico tattica, hanno a che vedere con la capacità di prendere decisioni, quindi con la sfera cognitiva. Si tratta di fattori che si legano in buona parte all’esperienza laddove si è chiamati a riconoscere, selezionare e decidere quando e cosa fare all’interno di possibilità multiple che un tempo, come già spiegato, erano minori. Ecco perché forse oggigiorno sono così numerosi i tennisti over 30 nelle classifiche mondiali, malgrado lo sport sia sempre più fisico. Questi veterani hanno imparato i processi del gioco assimilando competenze profonde col tempo, nulla a che vedere con la fugacità di un tweet.

Pertanto, se il tennis è uno sport complesso dove maturare è difficile anche per chi ha enormi potenzialità figuriamoci nelle scuole tennis, luoghi non certo frequentati da super talenti. Eppure il sogno prevale sulla realtà, la frenesia febbrile di arrivare il prima possibile a gareggiare per ottenere una classifica viene esasperata, e gli attrezzi contemporanei che concedono l’illusione di risultati immediati sostengono l’abbaglio. Ancora una volta l’apparenza inganna, per chi non ha letto Schopenhauer, e proietta i debuttanti nella centrifuga di una materia molto più complessa di ciò che a loro appare. Da qui, a poco più in la, si entra a corpo intero nella palude e si manifesta di conseguenza la fenomenologia dell’abbandono precoce. Una piaga che oggi colpisce soprattutto tra i giovanissimi coloro i quali hanno abboccato al richiamo della scorciatoia formato sconto verso il successo da supermercato.

Personalmente penso che il tennis non sia affatto una palude, ma un mare meraviglioso che va difeso dall’inquinamento. La forma più inquietante di inquinamento è oggi costituita dalla “brendizzazione”. Una fenomenologia che consente il riconoscimento immediato senza sforzo. Utile per accalappiare i più vulnerabili, per intenderci i più sprovveduti, i nuovi barbari del tennis. Purtroppo però “brendizzazione” fa rima con “cinesizzazione”, altro fenomeno mirato al taglio rigoroso di competenze e di costi. Questo perché i costi, è bene ricordare, sono soprattutto a carico di chi consuma non del brend che invece incassa. Malgrado lo sberleffo la “brendizzazione” viene creduta e vissuta da questa audience come autentico Vangelo.

A questo punto viene da chiedersi come tagliando competenze e costi sia possibile sostenere la qualità e la credibilità di un messaggio. Anche perché quanto diffuso dalla “brendizzazione” contiene tali enormità che difficilmente potrebbero ingannare un bambino delle elementari. Eppure la superficialità diffusa è talmente titanica che il messaggio-beffa passa, anzi addirittura attrae. Se invece smettiamo di correre e ci soffermiamo un attimo a pensare, ad esempio, agli insegnanti di tennis dei nostri figli, chi sono, quale percorso formativo hanno realizzato, oppure, ai prerequisiti tennistici loro richiesti per farne dei docenti, le risposte vi assicuro potrebbero far drizzare i capelli della statua del Duce.

Entrando nel merito, dobbiamo innanzitutto prendere atto delle classifiche nazionali, le quali sono divise in quattro categorie generali, a loro volta frammentate in livelli come fossero le classi che compongono un liceo. Si tratta di una razionalizzazione facilmente correlabile ai parametri scolastici. Dunque, se la prima categoria corrisponde ovviamente all’università del tennis giocato, la seconda è parametrizzata al liceo, così la terza alle medie e infine la quarta alle elementari.

Adesso proviamo a chiederci come sia possibile che un individuo possa diventare un insegnante qualificato senza aver mai raggiunto la maturità scolastica, ne sia mai riuscito a superare la terza categoria di oggi, ossia la terza media del campo da tennis. In questo caso specifico il candidato dovrebbe possedere tassativamente una laurea per rientrare a pieno titolo nei ranghi. Infatti, se per caso avete speso denari per lezioni di recupero scolastico dei vostri figli, vi accorgerete che vi sarete rivolti almeno a studenti universitari, non certo a quelli delle scuole medie. Ovviamente queste riflessioni faranno saltare la mosca al naso ad alcuni. Altri invece potrebbero addirittura accusare lo scrivente di classismo, senza comprendere però che non bastano passione e buona volontà per svolgere un mestiere ne tantomeno una professione, perchè servono competenze e titoli. Altrimenti ogni bambino sarebbe pronto per partire per la luna con il primo missile della NASA.

Nel tennis storicamente, è sempre stato difficile per l’iniziativa privata reperire risorse per contribuire alla causa tennistica nazionale e coniugare gli sforzi per interfacciarsi col sistema pubblico. Malgrado ciò alcune realtà ci hanno provato e continuano a provarci, comunque. L'augurio è che prenda forma uno scatto in avanti, una crescita dell'ambiente. In primio luogo che la figura degli insegnanti e dell'insegnamento sia rigorosamente di reale qualità. In secondo che i nuovi arrivati nella casa dei gesti bianchi evolvano. Il tennis è come l'opera e il teatro, per essere amato va compreso a fondo. Questo processo va ben oltre quello di seguire le partite in tv dell'idolo del momento e informarsi sui risultati nei social. Mi sia consentito di dire che esso passa in prima battuta dalla lettura di almeno tre libri. Uno su tutti è assolutamente obbligatorio: "500 anni di tennis" di Gianni Clerici. Chissà se nel paese de “Il Gattopardo” di Tommaso di Lampedusa si muoverà qualcosa verso il cambiamento, verso eccellenza e merito. Del resto anche le magnifiche racchette di legno hanno ceduto il passo.

 

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