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Il gioco del tennis è fatto di cose, tante cose. Quelle piccole si intrecciano con quelle più grandi in modo confuso, almeno in apparenza. Pare si mescolino fra loro dentro un infinito disordine che nel contempo dà vita a una logica incredibilmente ordinata dove ogni elemento, anche il meno significativo, ha invece un senso preciso. Così raccogliere semplicemente le palle, a suo modo, fa parte del gioco.

Infatti, il vero appassionato apprezza il tennis in tutte le sue forme, nessuna esclusa. Una figura particolare capace di ritrovarsi nelle sembianze di un bambino, oppure di un anziano e, perché no, anche in quelle di un campione. Questo perché un autentico tennista è innanzitutto un profondo appassionato, il livello di prestazione in questo caso è in subordine.

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Nel decorso del tempo dentro e fuori dal campo la passione spostava intere montagne. Verso la fine dei ruggenti anni venti i divi della racchetta Suzanne Lenglen e Bill Tilden abbracciavano l’idea del tennis aperto al professionismo, rinunciando al glamour dei grandi tornei. Altri strepitosi campioni seguivano le orme dei divi, dopo aver trionfato nel circuito dilettanti che comprendeva Wimbledon e i tornei dello Slam. Contestualmente, il sistema tradizionalista con a capo la federazione internazionale considerava i professionisti dei provocatori fuorilegge, colpevoli di guadagnare denari attraverso il loro lavoro: il tennis. La scomunica durava per lunghi anni, quasi mezzo secolo, fino a quando il gioco veniva liberato il 22 aprile 1968 diventando “Open”, lo sport che oggi tutti conosciamo.

Il primo torneo della nuova “Era” si teneva a Bournemouth in Inghilterra, la culla del gioco. La finale registrava la sfida tra i formidabili australiani Rod Laver e Ken Rosewall, forse la rivalità più luminosa della storia con all’attivo 149 incontri. Lo stesso copione si rifletteva anche nella prima finale Open di un torneo dello Slam: il Roland Garros. In questo modo il “Tennis Open” compie oggi, nel 2018, cinquant’anni. Una conquista ottenuta grazie allo sforzo e al coraggio di leggendari campioni mossi da autentica passione.

Così Roger Federer, si trovava in allenamento in Australia sul campo della residenza privata del suo coach: il fenomenale mancino Tony Roche, già campione Slam di singolare e di doppio tra gli anni sessanta e settanta. Tony è persona concreta di poche parole e organizzava la seduta di King Roger, il campione che sussurra alle palle. Il superbo svizzero spediva oltre la rete una palla via l’altra con un’intensità tale da confondere la macchina lancia palle, incapace di seguire il ritmo ultraterreno del fenomeno con la racchetta in mano. La protezione di fondo campo veniva trapassata da portentosi fendenti e le palle si perdevano sparpagliandosi sul prato. Non un prato qualunque, direbbe un attento osservatore, ma bensì la cornice perfetta di un luogo dove anche il tempo tratteneva il fiato.

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Accadeva così, quasi per caso, che un omino silenzioso vestito di bianco, ricurvo sull’erba come un arco nerboruto e fiero, si intrattenesse con sana passione a raccattare le palle. Pazientemente con antica sapienza, le riprendeva una per una per rimetterle al loro posto dentro un ampio cesto. Erano tutte ancora insieme e nessuna veniva abbandonata da quell’omino asciutto dalla chioma argentata. Che fosse l’angelo del tennis? Chissà! Di certo era un vero appassionato perché seguiva il gioco con gli occhi dell’amore. Un amore immenso come quello che muove il sole e le altre stelle, direbbe il Sommo Poeta.
Dimenticavo. L’omino in bianco portava e porta ancora oggi un nome come ogni sincero appassionato. Un nome che ha il profumo e il fascino di un magnifico muro di rose, il suo è Ken Rosewall: il tennista dei record.

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