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I miti viventi, novelli Dorian Gray della racchetta, dominano a turno la scena mondiale come fossero ancora nei loro anni migliori. Se manca Federer arriva Nadal, un gioco infinito di alternanza nell’attesa di Godot: alias Novak Djokovic.

Fenomeni assoluti, non c’è dubbio, forse in parte favoriti da una maturazione tardiva dei giovani virgulti. Una NextGen tanto attesa quanto reclamizzata. A ben vedere, la dotazione dei vari Zverev, Kyrgios, Shapovalov & Co è di primordine; il tutto però va tradotto in risultati Slam, almeno questo è quanto si augurano tutti gli appassionati.


La circostanza crea non pochi interrogativi. Il primo e più evidente, riguarda la crescente marea degli over trenta nelle prime cento posizioni della classifica ATP, un dato senza precedenti. Pensare come siano tutti dei Federer camuffati sotto mentite spoglie è da escludere, quindi rimane il fatto in sé. Questo fenomeno allora non colpisce esclusivamente l’Olimpo dei gesti bianchi, ma anche la retroguardia. In altre parole, quelle posizioni che fungono per loro natura da supporto al grande teatro della racchetta. Perché siamo giunti a questo scenario?
Il discorso è ampio, ma è possibile ricondurlo ad un ragionamento compiuto solo se si ha la pazienza di affrontarne alcuni punti ed esaminarli.
Non vi è alcun dubbio che far guadagnare tanto denaro e subito sia un aspetto devastante nella formazione dei giovani, in ogni ambito professionale. Alcuni di loro, una scarsa manciata, ha già incassato in premi quanto Bjorn Borg nell’intera carriera. Vero è che l’orso scandinavo giocava quarant’anni or sono. Vero è che Bjorn è una leggenda del tennis, mentre questi tennisti sono al momento solo giovani promettenti con la racchetta in mano. Nel basket NBA, per esempio, i guadagni dei giovani talenti vengono contenuti fino a quando la maturità agonistica consente loro di liberarsi dai vincoli.
Ecco forse spiegato il perché il basket americano, ancor più del calcio mondiale, è sempre rifornito di super campioni. Uno sport ricco, lontano dal mettersi nei guai, ovvero, nella situazione di diventare ostaggio delle giovani leve o ancor peggio di sé stesso. Ricordo come il tennis, dall’inizio dell’epoca Federer, abbia quadruplicato i premi dei tornei. Un fatto incredibile accaduto nell’arco di appena quindici anni. Addirittura, nei primi turni di uno Slam questa crescita si rivela ancor più elevata.
Un tempo le giovani racchette venivano forgiate nelle università anglosassoni e americane, in alternativa da fucine d’eccellenza con a capo personalità formidabili, centri gestiti dalle varie federazioni nazionali. Nell’est europeo ricordo la mano di Jaroslav Drobny, il professore campione di Wimbledon. Sempre nel dopoguerra, il tennis tedesco beneficiava dell’azione del colto aristocratico barone Gottfried von Cramm. Mentre la Francia di Philippe Chatrier, il Voltaire del tennis che insieme all’americano Jack Kramer trasportava la disciplina nell’Era Open, fondava negli anni sessanta la nuova scuola francese sulle orme dei Moschettieri e della Divina, così in America l’eredità culturale di Tilden e di Budge veniva conservata e ulteriormente sviluppata durante l’era professionistica da Jack Kramer e da Pancho Segura. Mentre nella lontana Australia il timone era nelle mani di Harry Hopman, campione di Davis e fondatore di una scuola innovativa; produceva campioni in serie come nessun’altra iniziativa ha mai saputo fare nella storia.

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Gradualmente questi percorsi formativi sono stati sostituiti da altri; così le Università cedevano il passo, nel loro compito formativo, alle accademie di tennis. Luoghi di business che attiravano e attirano tennisti di ogni specie e livello, basta che paghino. Tra questi, qua e là, si trovano anche talenti importanti; solo pochissimi emergono, la maggior parte viene spremuta e lasciata al proprio destino senza un’educazione scolastica adeguata. Un’evoluzione mirata ad ampliare la base ad ogni costo a prescindere dalla qualità dei discenti, e che nel contempo cerca di anticipare la nascita del campione nell’età liceale.
Anche le varie federazioni, chi più chi meno, hanno mollato la presa rispetto ai giorni passati. Le loro attenzioni erano quasi esclusivamente focalizzate alle proprie fucine per sviluppare talenti, non consumavano troppe energie per ampliare la base di amatori o di veterani da cui batter cassa. Così molte di queste fucine si sono spente, altre ridotte. Per esempio, fa impressione osservare come i tennisti statunitensi, un tempo dominatori del gioco, siano così esigui nel numero e nella qualità dei risultati rispetto alla loro tradizione.
Oggigiorno, il tennis è diventato ancor più multinazionale e, ironia del destino, è tornato ad essere una disciplina per tennisti maturi, non più per teenager. Possibilmente, questo aspetto ha messo fuori gioco i giovanissimi contemporanei, in generale troppo acerbi per cogliere l’arte e la scienza del gioco; quindi bisognosi di una lunga esperienza di campo prima di emergere, perché ribadisco, zavorrati da troppa impreparazione intellettuale.
Eppure, i campioni di un tempo non erano solo fenomenali tennisti capaci di performance eccezionali. Tra queste personalità alcune erano persone di cultura, altre invece formidabili artigiani, nel loro ambito correlabili agli artisti delle botteghe fiorentine, culle indimenticabili del Rinascimento italiano. Racchette in grado di scrivere trattati sull’arte e la scienza del gioco, non solo semplici libri autobiografici. Così un tempo esisteva la figura del campione filosofo e artigiano, capaci entrambi di lasciare il segno nella storia del tennis anche come formatori.
Dove si trovano oggi queste figure? Dove si nasconde il nuovo Tilden inventore della metodologia metacognitiva e della didattica del muro, oltre all’allenamento intensivo attraverso l’ausilio del cesto? Dove si intravvede un altro Harry Hopman, capace di inventare metodi innovativi come l’allenamento a tre dell’australiana? Attualmente chi è in grado di ipotizzare nuovi modelli di gioco come faceva a suo tempo Jack Kramer con la teoria del Big Game e del Power Tennis? E ancor più; dove si trovano i neo Pancho Segura, campione inimitabile e poi insegnante di portenti tra i quali Jimmy Connors, ideatore di un modello ecologico per il tennis?

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Modello ecologico (cit. Gibson) in cui la tecnica è al servizio del gioco: dove la tecnica è l’effetto e il gioco la causa. Una causa ovviamente portatrice di problematiche situazionali da risolvere. Eppure, tutti oggi parlano sempre di tecnica, quindi di effetti. Le cause vengono quasi del tutto ignorate. Così la didattica tecnico centrica focalizzata sulla biomeccanica e supportata da onnipresenti riprese video, ha sostituito i movimenti a vuoto tanto in auge nelle scuole tennis del passato. Un bel passo all’indietro, ma tecnologizzato e in buona parte robotizzato.
La tecnica è pacifica, nell’ambito della ricerca e risulta essere uno strumento al servizio di un obiettivo strategico tattico. La stessa si sviluppa in rapporto alle caratteristiche individuali del soggetto e alla sua dotazione di capacità cognitive, coordinative, senso percettive. La tecnica non si può certo somministrare come una supposta. Non esiste una “Rogerina” da assumere. Fa pensare come un individuo poco coordinato, dotato di una percezione periferica scadente, con difficoltà a prevedere la traiettoria della palla, possa pensare di imparare una tecnica fine, e così chiedere al maestro di imparare “dei bei colpi”. Per tecnica fine che alcuni confondono con la plasticità del gesto, così come l’azione con il movimento, molti intendono volgarmente la cosiddetta tecnica corretta.
Ma cosa si intende per tecnica corretta dato che non esiste un solo campione simile ad un altro? Purtroppo, come suggerisce la scienza, la ripetibilità esecutiva è un fattore irripetibile in modo preciso per lo stesso individuo (cit. Kelso), figuriamoci trasferirlo da un soggetto ad un altro. Questo perché non esistono due cervelli uguali (cit. Edelman), oltre al problema dei gradi di libertà del movimento già evidenziato dal ricercatore russo Bernstein nel 1966. Quindi, prima di divulgare opinioni o video sull’insegnamento del tennis, sarebbe forse opportuno da parte di molti studiare di più e pubblicare qualcosa in ambito scientifico e accademico sul tema, prima di inciampare in brutte figure evitando così la dinamica da bar sport, poi travestito di enfasi scientifica.
Malauguratamente, oggi il bar sport assume connotazioni cardinalizie quando qualche personaggio noto nell’ambiente si lancia nel campo dell’insegnamento o della divulgazione, anche se visibilmente lacunoso sul piano culturale, quindi delle competenze. Così, l’ex giocatore si trasforma repentinamente, dopo il ritiro dalle competizioni, in super esperto e mega tecnico. Fosse così capace nel compito dovrebbe, ogni volta che esprime il suo pensiero, fare la vera differenza e creare il vuoto intorno a sé. Ciò che resta è invece un’evidente affabulazione garantita ad un abile travestimento scenico. Una sorta di trasformazione da far invidia a quel somaro di un letterato di Franz Kafka, incapace di colpire palle di dritto e di rovescio, autentico dilettante anche in ambito di “Metamorfosi”. Avrebbe dovuto sapere come i veri maestri del trasformismo fossero ben altri.
In generale, come abbiamo già detto, l’ambiente era una volta composto da autentici esperti. Anche la figura di un celebre campione veniva comunque selezionata e filtrata, non esisteva l’esposizione allo sbaraglio. Competenze e contenuti erano i valori, non certo l’immediatezza e la velocità condite dal nulla cosmico. Così, per far un ulteriore esempio, Jack Kramer e John Newcombe si occupavano di televisione così come Bud Collins e Gianni Clerici, non certo Ken Rosewall e Rod Laver, privi di preparazione rispetto alle figure sopraccitate. Illustrare il tennis in punta di racchetta non corrisponde certo all’arte di saperlo spiegare in punta di lingua e di penna.
Lo stesso criterio veniva applicato in vari settori, tra i quali quello dell’insegnamento. Non tutti potevano diventare insegnanti di tennis, esisteva una selezione puntuale che garantiva, per quanto possibile, una data qualità. Infatti, una scuola o un marchio per riuscire ad affermarsi si avvaleva fin dal principio di elementi per l’appunto di qualità; non era certo il marchio a determinare la qualità degli elementi, dopo averli impiegati, solo per il fatto di averli resi visibili. Anche la manipolazione pubblicitaria non alterava lo stato delle cose nella misura stravolgente dei giorni nostri.
Tuttavia, non bisogna dimenticare come l’ex giocatore sia sempre stata una testimonianza preziosa di una avventura personale condivisa con altri tennisti. Come lo sherpa conosce i sentieri della sua montagna, il giocatore conosce la sua via al successo, una strada non facile da trasmettere a qualcun altro con differenti caratteristiche. Per sua fortuna l’ex giocatore tende generalmente ad occuparsi di altri talenti, e qui, grazie all’esperienza empirica vissuta tra palle e racchette ricopre un ruolo fiduciario importante che però poco c’entra con una vera e propria formazione.
Dopo questa lunga disamina ecco posti sul tavolo alcuni dei principali elementi, causa della situazione generale. Da dove bisogna ripartire? A mio avviso da un ribaltamento copernicano che prevede imprescindibilmente l’innalzamento del livello culturale all’interno dell’ambiente. Con tutta evidenza la sola esperienza di campo non basta, anzi è proprio quest’ultima che deve fungere da supporto alla cultura e non viceversa. E quest’ultimo concetto costituisce un ulteriore cambiamento di prospettiva nelle credenze diffuse.
La pratica senza la teoria è come una barca senza timone, suggeriva il genio senza tempo Leonardo da Vinci. Vediamo se il tennis sarà in grado di non perdere la rotta.

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