Quanto avvenuto nella finale femminile degli US Open 2018 non ha precedenti: la giovane trionfatrice Naomi Osaka si scusa col pubblico per aver battuto Serena Williams rovinando la festa.
Procediamo con ordine. La giovane nipponica Naomi Osaka vince il primo Slam per il Sol Levante compiendo un’impresa storica. Nella finale supera la statunitense Serena Williams giocando alla Serena. Nei momenti decisivi la giapponese non lasciava scampo alla rivale a suon di ace e di giocate vincenti. La campionessa afroamericana tentava ogni mossa, propria e impropria, per tentare di sovvertire una partita segnata dal destino, quasi fosse tornata agli incubi del 2015 nella semifinale perduta contro Robertina Vinci. Così Serena era alla caccia del ventiquattresimo titolo Major, nell’intento di pareggiare il record dell’australiana Margaret Smith Court, un’altra mamma vincente con la racchetta in mano. Fin dal debutto dell’incontro tirava un’aria avversa alla Williams, grazie alla bravura della Osaka, quando l’arbitro interveniva in modo perentorio e fiscale per infliggerle un “warning”. Una decisione ineccepibile a stretta norma di regolamento, norma che però viene sempre attivata dagli arbitri con largo respiro. In altre parole, le modalità non sono mai rigide per nessuno o quasi. Fatto sta che questa volta le cose sono andate diversamente e l’arbitro, incapace di interpretare il momento, applicava la sanzione alla prima occasione. Opportunità offerta dalla ditta Moratoglou & Co, proprio lui il mentore di Serena; “The Mentalist” oppure “The Coach” come lo definisce la trasmissione di Eurosport scivolava incredibilmente come uno scolaretto sulla classica buccia di banana e andava in castigo dietro la lavagna zittito per tutta la partita. Contestualmente il gufo appollaiato sul trespolo si rimetteva al regolamento scatenando l’ira funesta della Williams che da quel momento in poi non ha più smesso di cantare all’arbitro la sua “serenata”.
Impazzita come una belva infuriata questa icona della moda e del glamour internazionale, vista la sua presenza anche al recente matrimonio reale inglese, esibiva il peggio di sé rivelando un vuoto formativo culturale importante. Ma cosa c’entra la cultura, potrebbe domandarsi oggigiorno più di qualcuno? C’entra eccome e lo vedremo in seguito! Intanto, informo come gli US Open esistano dal 1881, un tempo nel quale sono fioriti meravigliosi campioni. Tra questi due in particolare sono correlabili alla questione Serena Williams. La prima figura è quella di Althea Gibson, prima afroamericana capace di vincere Wimbledon, US Open e Roland Garros negli anni cinquanta. Althea doveva sconfiggere non solo le avversarie, ma il pregiudizio razziale, quello xenofobico e la misoginia. Una donna colpevole di essere così diversa e di successo. La seconda figura invece, è quella di Arthur Ashe, l’ufficiale gentiluomo primo nero in grado di vincere Wimbledon, US Open e Australian Open. Personaggio al quale è intitolato lo stadio di tennis più grande del mondo, per l’appunto quello dedicato alle finali degli US Open. Accidenti che imbarazzo! Eppure, malgrado le evidenze anche il pubblico voleva Serena sul podio desiderando ad ogni costo la sua vittoria, totalmente incurante del tennis meritevole della giovane Osaka alla sua prima finale Slam.
Le urla assordanti dell’imbruttita gente, direbbe il Sommo Poeta, passavano sopra le voci microfonate degli addetti alla premiazione dove accadeva l’inimmaginabile. La giapponese Osaka chiedeva scusa all’audience imbufalita per aver battuto la loro beniamina rovinando la festa. Solo l’eleganza di Chris Evert si inchinava alla Osaka mitigando lo scempio pubblico tra le lacrime della piccola Naomi. Mi chiedo: chissà, se nel Colosseo della città eterna dove veniva inventato il “panem et circenses” il pubblico fischiava i gladiatori. Chissà! Eppure, il danno era fatto, realizzato da spettatori che vanno al tennis come fosse una fiera di paese, addobbati con cappello porta bibite e sputacchiera di fortuna per imbottirsi di popcorn, ammoniva già a suo tempo David Foster Wallace. Un comportamento alimentato dal business, dal marketing che invece di educare i belluini al teatro del tennis li blandisce in nome del profitto del momento, asfaltando così i secolari e raffinati rituali dello sport dei gesti bianchi. Una visione utilitaristica, per non dire piratesca, alla quale è stata sacrificata ultimamente anche la Coppa Davis. Purtroppo, pare non si possa fare nulla contro questa impostazione che fa razzia ovunque, in ogni ambito, lasciando dietro di sé che la miseria. Ed è proprio qui il nodo della questione. Nulla è peggio della miseria e dell’ignoranza, le piaghe per eccellenza e a New York ne abbiamo appena avuto una prova. Consuma e sai chi sei! Recita uno degli ultimi lavori del filosofo polacco Zygmunt Bauman, scrittore di quel best seller dal titolo “Società liquida”. Così il modello culturale e di business americano, oggi adottato dall’universale come fosse una nuova religione, ha rivelato nella finale degli US Open statunitensi tutta la sua portata. Un modello che oggi influenza le masse planetarie portandole a consumare quello che il marketing impone, a tifare una squadra contro l’altra, un campione contro un altro, senza capire nulla della bellezza o dell’importanza di quella materia, prodotto o sport che sia. Una spirale orientata a far desiderare che vincano sempre gli stessi attraverso un “Mantra” di appartenenza. Ribadisco, quanto abbiamo visto in mondovisione durante la finale femminile degli US Open 2018, circa il comportamento del pubblico, evidenzia un risultato vergognoso che ha superato ampiamente quello già inqualificabile di Serena Williams. Non credo sia possibile accettare ulteriormente un declino culturale del genere; per cui penso sia arrivato il momento, almeno per quella parte di pubblico che dissente, una levata di scudi per far sentire la propria voce. Viceversa, ci si rende tutti complici di questa morte annunciata.