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Gli Australian Open sono finiti. Archiviato un evento forse irripetibile risulta ora più semplice riflettere a mente fredda con il dovuto distacco, senza contaminazioni emotive. Molti hanno già detto e scritto sulle finali del singolare maschile e femminile e sui rispettivi interpreti celebrandoli come da consuetudine, in maniera iperbolica.

E’ stato illustrato un manifesto tennistico che ha fatto la storia del gioco e nel contempo la fortuna del marketing. Per intenderci, vendere un appuntamento dove si contrappongono Roger Federer e Rafael Nadal da un lato e le sorelle Williams dall'altro, non capita certo tutti i giorni.

Togliendo però le sovrastrutture celebrative, numerose quanto ripetitive, l’evento registra l’età media più elevata di sempre tra i finalisti di uno Slam dell’era open. Sommando gli anni dei quattro protagonisti si giunge alle centotrentanove primavere. In pratica una media di quasi trentacinque anni a tennista, una prerogativa che consente di partecipare addirittura alle competizioni over.

Tra le signore della racchetta, Serena Williams ha avuto la meglio sulla sorella maggiore Venus per 6/4 6/4 in una partita rapida a senso unico. L’esito della contesa è parso scontato fin dal palleggio preliminare anche alle menti più distratte. Serena, con ben trentasei anni sul groppone, ha aggredito la seconda palla della trentasettenne Venus lasciandole che le briciole, solo il 29% delle situazioni giocate.

Una partita che ha visto Serena produrre qualche vincente in più, 27 contro 21, ma che nel complesso ha registrato 48 colpi vincenti contrapposti ad altrettanti errori gratuiti da parte delle due contendenti. Un rendimento che certo non si può definire straordinario.

Alla fine della commedia Serena Williams si è portata a casa il trofeo senza cedere un set nell’intero torneo, un assegno di due milioni e seicentomila euro e il ventitreesimo titolo dello Slam avvicinando il primato dell’australiana Margaret Court Smith fermo a quota ventiquattro.

Fa pensare come nella carriera di Serena Williams tredici titoli siano stati acquisiti in altrettante stagioni agonistiche, tra i diciotto e i trent’anni alla media di uno all’anno, mentre gli altri dieci allori sono stati conquistati tra i trentuno e i trentasei anni con la media raddoppiata, ossia al ritmo di due vittorie stagionali.

Ma più ancora, sbalordisce vedere la figura di Serena Williams nei sui primi tredici anni di performance dove esprimeva una fisicità assoluta da atleta olimpica, contrapposta agli ultimi cinque anni di gare dove ha guadagnato il soprannome di “Serenona”.

Tra gli uomini il successo ha sorriso a Roger Federer che ha incassato lo stesso assegno di “Serenona” e il diciottesimo titolo Slam, superando se stesso nel record dei più titolati della storia. Roger, digiuno di “Mayor” da Wimbledon 2012 e di gare da oltre sette mesi, si è presentato a Melbourne in ottima forma, trovando nel torneo fiducia e il suo magico tennis.

La medesima situazione l’ha vissuta in parte anche il finalista Rafael Nadal che per motivi di salute ha vissuto una stagione 2016 da latitante, più fuori che dentro al campo. Dunque, i magnifici duellanti sono arrivati allo scontro dopo due semifinali serrate e hanno dato vita a una delle sfide più suggestive che il tennis attuale possa offrire.

Del resto, la vera grande sconfitta l’ha incassata Novak Djokovic, non sul piano del gioco ma dell’impatto mediatico. Il serbo pur dominando il tennis da anni è sembrato evaporare dai pensieri dai cuori degli appassionati. Un fatto, a mio parere, crudele quanto ingiusto vista la bravura di Nole che vanta in carriera dodici titoli Slam.

La finale maschile ha avuto un andamento altalenante perché ciascun set dei primi quattro parziali è stato vinto in modo perentorio, e nel contempo alternato, dai due campioni che si sono presentati in perfetto equilibrio al quinto set dopo oltre tre ore di gioco e di grande spettacolo.

Nadal ha dovuto affrontare un Federer insolito, più convinto e meno titubante che ha saputo arrestare la storica emorragia sulla diagonale sinistra che procurava in passato tanti punti a buon mercato al campione iberico. Questo fattore ha inciso anche sulle traiettorie di servizio di Rafa che ha dovuto variare maggiormente gli angoli, uno sforzo psicologico che forse a lungo termine lo ha inaspettatamente logorato.

Il fatto che Federer abbia risolto il dilemma mancino alla trentacinquesima sfida, ha obbligato Nadal a un ribaltamento copernicano sul piano cognitivo, dovendo pensare e poi giocare da destrorso. La causa di questa novella pare trovi riscontro oggettivo nella combinazione dei materiali.

La superficie e le palle impiegate in questo Australian Open hanno reso i rimbalzi più bassi, dunque il gioco più rapido. Una circostanza che ha ripristinato le condizioni del tennis di un tempo, quando l’arte prevaleva sul muscolo.

Infatti, se la palla si alza meno dopo il rimbalzo è più facile incontrarla e non perdere campo. Un aspetto che è stato possibile riscontrare anche nel bulgaro Dimitrov che in semifinale contro Nadal ha steccato di rovescio poco o nulla.

Le statistiche del match dicono che Roger Federer ha prodotto più vincenti (73) rispetto al rivale (35) e viceversa più errori gratuiti (57 a 28) dimostrando di essere il giocatore che prende maggiormente l’iniziativa.

Tuttavia, la vera differenza della contesa si è consumata sul piano mentale, piuttosto che sui numeri che nel complesso hanno evidenziato, nelle loro compensazioni, un certo equilibrio.

Nel quinto e decisivo set Nadal ha ottenuto il break in avvio su Federer scivolando poi in vantaggio per 2 a 0, vantaggio poi consolidato a fatica fino al 3 a 1. A questo punto si è innestata una clamorosa rimonta.

Lo svizzero accorcia col proprio servizio sul 3 a 2 mandando in battuta Nadal. Lo spagnolo si porta in vantaggio trenta a zero in un “game” che sembra finalmente senza patemi e invece, causa due errori banali di diritto, si complica.

La partita entra nei meandri di un labirinto dove l’alternanza del punteggio porta Rafael al vantaggio per volare sul 4 a 2. Un’occasione d’oro per far sprofondare King Roger nella consueta “nadalite” che lo ha perseguitato per tutta la carriera.

Tutto sembra perduto per il re quando sul più bello arriva l’imprevisto. Rafa Nadal, stremato da una prestazione impervia, rompe psicologicamente nel classico “Momento Federer”. Un momento inteso dallo scrivente in senso diametralmente opposto alla descrizione di quel genio di David Foster Wallace. E la possibile “debacle federeriana” diviene sorprendentemente “nadaliana”.

Rafael incassa un passivo di dieci punti consecutivi ritrovandosi tramortito sul 4 a 3 per Roger e zero quaranta sul proprio servizio. Un fatto eccezionale quanto inconsueto per l’iberico che si trova di repente nel ruolo che più volte ha incarnato il novello Manolete svizzero. Lo spagnolo prova a reagire, e da campione qual’è si riporta quaranta pari impattando l’avversario.

Il tempo pare fermarsi e contraddire i principi della fisica per far posto ai lampi di Roger Federer che sfodera la sua immensa classe, compie il break e sale 5 a 3 col servizio per chiudere.

Primo quindici, “crack”, servizio vincente e scappa avanti nel punteggio. Rafa non ci sta, lotta da autentico gladiatore e raggiunge Roger ai vantaggi. Malgrado le avversità lo spagnolo è un campione recuperato che si è lasciato alle spalle le incertezze che hanno contraddistinto il suo tennis negli ultimi tempi.

Ora è giunto il momento. Adesso l’attimo è propizio. Ma i campioni sanno. Loro sanno che il tennis è lo sport del diavolo e fino all’ultima palla tutto quanto potrebbe essere ribaltato.

Match point Federer che tira una drittata vincente e Nadal chiama il “falco”. Una suspense impensabile anche per l’inarrivabile Hitchcock. La palla è buona, è il verdetto. Gioco partita incontro Roger Federer che esulta come un fanciullo fino alle lacrime. Rafael Nadal da autentico gentiluomo corre a stringere la mano al rivale lasciando l’intero palcoscenico al Charlie Chaplin del teatro del tennis.

Grazie a Roger Federer e a Rafael Nadal abbiamo vissuto un’altra indimenticabile pagina di tennis. Due campioni straordinari che hanno regalato agli appassionati momenti unici caratterizzando un’epoca alla maniera di Lawrence Doherty, Bill Tilden, Don Budege, Rod Laver, Bjorn Borg, Pete Sampras.

Ma soprattutto due campioni che hanno insegnato, attraverso i loro memorabili duelli, l’arte del saper come perdere. Perché nessuno nello sport contemporaneo è capace di perdere con l’eleganza di Roger Federer e la sportività di Rafael Nadal.


ANALISI FINALE

Pare incredibile come si possa ancora pensare o far credere agli appassionati che il successo di Roger Federer dipenda dall’aspetto legato a dritti e rovesci. Se così fosse sarebbe un fatto sconcertante perché vi sarebbero nel merito due possibili considerazioni da compiere:

1- Gli allenatori passati di Roger Federer sono stati inefficaci
2- Lo svizzero è tardivo nella comprensione essendosi illuminato all’alba delle trentasette primavere

Cari lettori, delle due l’una. A voi la scelta.
Malgrado ciò sorge un’ulteriore riflessione: 

E se nel tennis a parità di livello l’aspetto tecnico- esecutivo fosse marginale?                                                                                                                    

Nel caso specifico di questa finale australiana, il miracoloso miglioramento di rovescio dello svizzero è stato facilitato, mi tocca ancora ribadire, dalle condizioni ambientali favorevoli. Superficie e palle che hanno reso il gioco più veloce.

Viceversa l’elemento “bracciologico” (termine di mio conio) tanto decantato, non risulta essere determinante nella disputa di Melbourne, come del resto in tutti i confronti tennistici equilibrati. Questo perché nel tennis si compete per livelli, non certo come nelle pubblicità dove piace vincere facile.

Inoltre, è bene ricordare che anche il miglior colpo del mondo, se previsto dall’avversario, non produce effetto. In barba ad ogni disquisizione biomeccanica sul gesto tecnico.

Ciononostante, è possibile osservare come la "bracciologia" di Nadal, ritenuta dai più qualitativamente inferiore, ha prevalso su quella di Federer in ventitre sfide su trentacinque. Tra queste, tredici sono avvenute sulla terra battuta dove il servizio ha meno incidenza che altrove a causa dell'attrito del rimbalzo.

Ebbene, in quest’ultima partita lo svizzero ha conquistato centocinquanta punti contro centotrentanove. Entrambi i giocatori hanno servito tre doppi falli a testa producendo in totale ventiquattro “aces”, venti dei quali sono stati firmati da Roger Federer.

Un differenziale di sedici punti diretti con la battuta a beneficio dell’elvetico. Se però questo differenziale viene sottratto dai punti totali ottenuti da Roger, si evidenzia che a palla in gioco la “bracciologia” inferiore di Rafael sorprendentemente prevale.

Perché accade tale fenomenologia?

Forse a più di qualcuno sfugge il dettaglio che Federer sia uno dei migliori servitori di sempre e non certo uno dei più efficaci palleggiatori “All Time”. Fra tutte le abilità tecniche del gioco del tennis quella con il maggior coefficiente “bracciologico” è possibilmente il servizio, se proprio vogliamo parlare ad ogni costo volgarmente di fattore-braccio”.

Di fatto, è noto a chiunque abbia rudimenti tennistici come la battuta sia l’arma prevalente della specialità. Un’abilità “close skill” che fa la grande differenza in uno sport “open skill”. Questo è il punto, un aspetto dal fascino irresistibile che custodisce in se bellezza e complessità di uno sport illustrato troppo spesso con superficialità, dove vengono divulgate “enormità” colossali.

E adesso, dove li mettiamo i dritti, i rovesci, le demi volèe, i top e i back di Roger Federer e del tennis?

Per saperne di più sull’argomento, sempre che la cosa risulti di interesse comune, basta scrivere alla redazione di www.iltennis.com. Se arriveranno sufficienti mail di richiesta il compito sarà effettuato.

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