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Come se l’intera trama fosse stata orchestrata dal vostro autore di gialli preferito, la soluzione dell’enigma non è ancora stata svelata e, anzi, è alquanto probabile che l’intera vicenda rimarrà in sospeso sino all’ultima pagina del libro: benvenuti alle ATP World Tour Finals 2016.

L’anno trascorso, nel mondo del tennis maschile ha riservato grandi sconvolgimenti – il più recente risale proprio a qualche giorno fa con l’uscita di Federer dalla top ten dopo 14 anni – ritorni al vertice – su tutti quello, insperato dobbiamo dirlo, di Del Potro – e record – Murray che a Rio ha bissato la medaglia d’oro di Londra e Djokovic che a Parigi ha conquistato il primo Roland Garros ed il conseguente Career Grand Slam.

Tuttavia, l’ultimo torneo dell’anno, le ATP World Tour Finals, decreterà non solo il Maestro dell’anno corrente (titolo che viene dato al vincitore del torneo fino al 2008 chiamato ATP Master) ma anche chi potrà effigiarsi dell’alloro di numero 1 del mondo del 2016: dulcis in fundo avrebbero detto i latini.

Ma andiamo con ordine.

I migliori otto giocatori del pianeta, anche se sarebbe più corretto dire i primi otto giocatori del Ranking ATP ad esclusione degli infortunati, si ritrovano come ogni anno dal 2009 a pochi metri dalle acque torbide del Tamigi, alla O_2 Arena, l’unico impianto europeo ad ospitare ogni anno una partita di Regular Season NBA. Per le ATP Finals, il solo court dell’impianto presenta una superficie in GreenSet, il medesimo delle Olimpiadi e di Parigi Bercy; nonostante ciò, secondo i dati forniti dall’ATP, le analisi effettuate rivelano come la “velocità del campo” – il Court Pace Index, CPI – si attesti a 34.0, un coefficiente che dipende da parametri quali la frizione e la restituzione. Se confrontata con altri tornei, notiamo che tale coefficiente è maggiore rispetto ai due Master 1000 primaverili che si disputano negli USA e a quello di Parigi Bercy, mentre risulta minore rispetto ad altri Master 100 come Shangai (il più “veloce”), Toronto e Cincinnati. Londra, dunque, in un tennis sempre più omologato pare essere il torneo “medio” per antonomasia.

Il Master, che ospita anche la competizione di doppio, apre i battenti Domenica 13 novembre con il match inaugurale alle ore 15.00 italiane e si conclude esattamente una settimana dopo, giorno 20 novembre con la finale delle ore 19.00.

Per la prima volta dopo 14 anni né Roger Federer né Rafael Nadal saranno al via dell’evento che chiude la stagione ATP.

Come da tradizione le sfide non si disputano tramite il classico tabellone tennistico ad eliminazione diretta; vige, infatti, la formula del girone all’italiana (è l’unico torneo del circuito che adotta tale formato): gli otto giocatori sono sorteggiati in due gironi, denominati gruppo Lendl e gruppo McEnroe, in quello che viene chiamato Round Robin. Per ogni incontro vinto si guadagna un punto; accedono alle semifinali i primi due classificati dei rispettivi gironi. A questo punto si procede ad eliminazione diretta fino alla finalissima, quando verrà proclamato il Maestro del 2016.

Da sempre la formula del Round Robin ha fatto storcere il naso a più persone; questo perché mina alla base l’essenza stessa del tennis: chi vince va avanti, chi perde va a casa. Oltre a ciò si corre spesso il rischio di vedere partite ininfluenti, prive di pathos, oppure di osservare giocatori già appagati che non offrono particolare resistenza nei propri incontri: insomma, la formula, spettacolare non c’è dubbio, potrebbe essere quantomeno rivista o rivisitata al fine di salvaguardare l’integrità e la competizione agonistica, ovvero egualitaria, tra tutti i partecipanti.

Fatto questo preambolo, il girone Lendl vede ai nastri di partenza Djokovic, Raonic, Monfils e Thiem mentre il girone McEnroe comprende Wawrinka, Cilic, Nishikori e il numero uno del mondo Andy Murray: no, nessun refuso, Andy Murray dopo la vittoria di Prigi Bercy è diventato, a 29 anni e mezzo, per la prima volta numero uno del mondo, il più anziano a raggiungere un simile traguardo da quando Newcombe nel 1974 raggiunse la vetta delle classifiche a trent’anni suonati.

Flashback. Facciamo un passo indietro e torniamo al pomeriggio ventoso di domenica 5 giugno 2016.

Parigi. Stadio Philippe Chatrier. Novak Djokovic imbraccia la sua prima Coppa dei Moschettieri: ha incamerato il tanto agognato primo sigillo sulla terra, fino ad allora nefasta, del Roland Garros. Più di 8000 punti lo dividono dallo scozzese Andy Murray, quel giorno perdente in quattro set dal campione serbo. Molti tra i più autorevoli addetti ai lavori pronosticavano un’annata record per Nole, il Grande Slam, si diceva, era solo questione di tempo. E invece, a distanza di soli cinque mesi siamo di fronte ad uno scenario completamente diverso: da Parigi in poi solo un titolo per Djokovic, il Master 1000 di Toronto, molte delusioni, su tutte la sconfitta alle Olimpiadi con Del Potro e la seconda posizione in classifica. Dal canto suo, Murray ha vissuto una seconda parte di stagione assolutamente inebriante in quanto a gioco e risultati: da Roma in poi un record di 56-4, otto titoli tra cui Wimbledon, l’oro olimpico e la vetta in classifica raggiunta proprio questo Lunedì. Murray, inoltre, si presenta a queste Finals con una striscia di venti vittorie consecutive, successi che gli hanno fruttato i titoli a Pechino, Shangai, Vienna e Bercy: Murray, l’eterno secondo, da sette anni numero due del mondo, a Londra è, senza alcun dubbio, l’uomo da battere. Certo, talvolta le previsioni possono andare a cozzare duramente con la realtà dei fatti – come potrebbe spiegarvi bene sia Hillary Clinton che tutto il resto degli USA – ma, almeno questa volta, la vittoria dello scozzese sembra, se non scontata, almeno preventivabile.

In verità, il girone del britannico è decisamente più ostico, almeno sulla carta, rispetto a quello dell’avversario serbo. Andy dovrà vedersela subito con il secondo giocatore più in forma del momento, quel Marin Cilic che dall’avvento dell’estate americana sul cemento è letteralmente esploso, 19-4 il record dal Master 1000 di Cincinnati, vinto proprio in due set contro Murray. Il croato non è il solo uomo da temere in un gruppo che consta della presenza di Wawrinka e Nishikori, due giocatori che, però, sono arrivati a fine stagione apparentemente scarichi. Il nipponico è costantemente vessato da problemi fisici che, dopo la tregua estiva, si sono ripresentati con forza in questo autunno e lo hanno costretto a sole nove partite dagli US Open in poi, tra cui due sconfitte ed un ritiro. Un Nishikori che pare sempre più vicino ai primissimi della classe, ma cui manca costantemente il classico centesimo per fare il dollaro. Pur non versando in ottime condizioni, Wawrinka a Londra potrebbe essere la mina vagante del torneo, una competizione, il Master, che lo ha sempre visto superare il Round Robin nelle tre edizioni in cui ha preso parte: come ha dimostrato anche agli Open degli Stati Uniti, lo svizzero tende ad esaltarsi nelle grandi manifestazioni, sintomo di un ottimo giocatore altalenante che ha bisogno di particolari stimoli per rimanere motivato e concentrato sull’obiettivo; nel girone McEnroe, Wawrinka può essere uno spiacevole cliente per tutti, Murray compreso.

Per uno scherzo del destino, il girone più soft prende il nome da un grande giocatore del passato (e ora coach proprio di Murray dopo la fine del rapporto professionale con la Mauresmo) decisamente non incline a spiritosaggini e leggerezze, Ivan Lend. Di Nole abbiamo detto in precedenza, vera Sfinge edipica del gruppo che non è mai apparso così vulnerabile come nelle ultime settimane, rimanendo pur sempre uno straordinario fuoriclasse. Gli altri campioni che compongono il gruppo, tuttavia, non sembra abbiano il pedigree necessario per riuscire ad estromettere il serbo dalla corsa per le semifinali. Nole con i tre sfidanti ha un record eloquente di 23 vittorie e 0 sconfitte, un solo set vinto da Raonic contro quattordici vinti dall’avversario e nessun set incamerato da Thiem nei tre incontri disputati. Proprio l’austriaco, numero nove del mondo che ha ottenuto il posto in tabellone a dispetto del forfait di Rafa Nadal, sembrerebbe il giocatore con minori speranze: Thiem viene da una stagione esaltante nella prima parte e quasi sconcertante nella seconda, forse a causa dei troppi tornei e spostamenti occorsi nei primi mesi dell’anno, dove da Wimbledon in poi ha raccolto solamente 15 vittorie a fronte delle ben 10 sconfitte. Anche Raonic, parzialmente ritrovato durante il torneo di Parigi, non sembra al suo meglio anzi, la sua effettiva partecipazione non è del tutto sicura, visto l’infortunio al quadricipite, l’ennesimo di una stagione tra alti e bassi. Chi potrebbe far saltare il banco è l’enigmatico – ce ne sono parecchi di giocatori enigmatici a queste Finals – e funambolico Gael Monfils, il francese che, in vista della sua prima partecipazione al Master di fine anno, ha optato per una strategia differente rispetto a tutti gli altri giocatori: il riposo. Non ha partecipato a Bercy e, per preservare il fisico dal logorio del proprio gioco sempre al limite, il suo autunno tennistico consta solo del cammeo con sconfitta a Stoccolma; una scelta oculata di un giocatore che oculato raramente lo è stato in tutta la sua carriera: vedremo se tale scelta sarà anche fruttuosa.

Insomma, nonostante grandi e ulteriori stravolgimenti, le Finals andranno probabilmente a uno tra Murray e Djokovic: chi tra i due andrà più avanti nel torneo, si aggiudicherà anche la vetta delle classifiche mondiali visto che lo scozzese è in vantaggio di soli 130 punti e tutto è ancora in bilico. L’ultima pagina del giallo è ancora tutta da scrivere.

Pronostico semifinali: Murray-Monfils, Wawrinka-Djokovic.

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