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Il gioco del tennis ha attraversato i secoli e durante la sua storia numerosi cambiamenti. Dal regolamento ai materiali fino agli atleti stessi, il gioco si è progressivamente trasformato diventando sempre più potente e fisico.


Malgrado ciò la struttura profonda della disciplina non si è modificata, infatti per ottenere il punto occorrono sempre tre modi: la giocata vincente, l’errore procurato all’avversario e quello gratuito, quando un tennista sbaglia da solo.

Incredibilmente anche l’equilibrio tra questi tre elementi non è mutato nel tempo, quando si assiste a un incontro di qualità; questo perché sia ieri come oggi i tre fattori si trovano sempre in perfetto equilibrio tra loro, divisi in parti uguali.

Volando sopra la storia del tennis sorprende scoprire come prima, durante e dopo le due guerre mondiali, così come nell’era open, il tennis internazionale sia sempre stato monopolizzato da una stretta elite di campioni. Malgrado le evoluzioni e il costante ampliamento della base di praticanti, quando si tratta di vincere i tornei che contano emergono sempre gli stessi giocatori. Una scarsa manciata di tennisti, i cosiddetti primi della classe.

Allora cosa avranno mai in comune questi campioni, anche quelli di epoche così diverse?

Visitando la letteratura scientifica e gli accadimenti sportivi appare quale aspetto dominante il saper usare la mente in modo diverso rispetto all’universale. Ebbene, i campioni possiedono una formidabile capacità di previsione e di stima della situazione ambientale, per dirla con le parole di Kording e Wolpert illustrate nel 2004 sulla rivista Nature. Una ricerca dal titolo: “Anyone for bayesian integration”.

Una caratteristica eccezionale che consente loro di capire prima cose e dinamiche ponendoli nella condizione di essere spesso nel posto giusto al momento giusto. Un vantaggio competitivo inestimabile capace di anticipare il processo cognitivo e motorio, rendendo così funzionali le azioni, economici e plastici i movimenti.

Per rendere chiara la comprensione di questa particolare fenomenologia occorre prendere in ausilio il gioco della mente per eccellenza, quello degli scacchi. Forse quello più sconvolto dai cambiamenti tecnologici e dalle sue incredibili evoluzioni.
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Il gioco degli scacchi deriva da antichi giochi indiani e persiani del sesto secolo (d. c.), conosceva la sua espansione in Europa grazie alla magnificenza culturale del Rinascimento. In seguito, assumeva una posizione predominante nel mondo tra gli anni ’30 e ’70 del ventesimo secolo grazie al lavoro di alcuni formidabili giocatori russi.

Il campione per eccellenza espressione di quel periodo era Boris Spassky da Leningrado, scacchista imbattibile per continuità e calcolo. Leggeva, studiava, scriveva e giocava, fondando le basi del gioco moderno. Realizzava così gran parte della letteratura scacchistica dove venivano descritte minuziosamente strategie e tattiche, come poterle acquisire e impiegare.

Il lavoro di Spassky si avvaleva di competenze eccezionali e soprattutto di tempo illimitato da dedicare al compito, tentando di comprendere i misteri del gioco. Segreti che l’intrepido americano Bobby Fisher riusciva a carpire a Spassky. L’eccentrico americano non solo si infiltrava nel quartier generale sovietico, oltre la cortina di ferro, ma imparava addirittura il russo per codificare la “Bibbia” degli scacchi. Così negli anni ’70 il genio imprevedibile di Fisher superava Spassky, mischiando continuamente il gioco confondendo le strategie del russo.

Dopo il trionfo, Fisher decideva per il ritiro e la corona mondiale tornava a Mosca grazie al genio di Anatolij Karpov. Dai primi anni ‘80, un altro russo elevava l’arte degli scacchi fino al nuovo millennio. Questi era il mitico Garry Kasparov.

Con l’avvento di Kasparov iniziava la grande trasformazione perché la tecnologia invadeva il mondo degli scacchi con il computer, il cosiddetto cervello elettronico. Senza tecnologia l’arte degli scacchi era elitaria perché solo pochi talenti sapevano organizzare la preparazione pre gara e quindi essere efficaci durante la prestazione.

Negli anni duemila, alla fine dell’era Kasparov, il supporto tecnologico dei computer risultava determinante. Il tempo che i campioni pre-tecnologici impiegavano per imparare e preparare la gara venivano assorbiti in poche ore di studio.

Il fatto comportava un sensibile allargamento della base aprendo le frontiere a più praticanti, rendendo anche il vertice forse più vicino. Grazie al cambiamento copernicano anche un neofita era in grado di capire in pochi minuti gli errori e addirittura afferrare quelli dei campioni. Infatti, calavano sulla scena i primi maestri bambini come l’attuale indiano Pragnanandann di dieci anni di età.

Attualmente, il campione del mondo è il ventiseienne norvegese Magnus Carlsen che da sette anni mantiene la vetta. Un fenomeno capace di tenere il distacco da una base più ampia e possibilmente a lui più vicina. La sua grande abilità risiede nel saper fare la differenza sulla scacchiera nel momento che più conta, dato che preparazione e pre-partita sono sulla carta alla portata di tutti.

Possiamo quindi osservare come la tecnologia consenta prestazioni superiori rispetto al passato. Negli scacchi questa si è tradotta in minor tempo per capire e meno errori commessi, ma il campione, evidentemente, è riuscito a sfruttare ancor più a suo vantaggio questa nuova opportunità di cambiamento.

Queste trasformazioni rendono impossibile paragonare le capacità individuali dei singoli campioni in periodi storici così diversi. “Ognuno è campione del suo tempo” diceva il grande tennista Rod Laver e quindi l’unica correlazione possibile tra le leggende nei vari giochi è la distanza che gli stessi sono stati in grado di creare rispetto ai loro rivali.


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Inoltre, le evidenze dimostrano come la distanza tra il vertice e la base rimanga tendenzialmente marcata, a prescindere dall’ampiezza del movimento e dal contesto storico. Dunque, possiamo affermare che allargare la base porta come risultato certo l’ampliamento del consumo di una data disciplina, come esattamente avviene per un qualsiasi prodotto commerciale. Quindi pare che un ampio numero di praticanti abbia poca correlazione con la fenomenologia del campione e questo spiega in parte il successo di piccole nazioni con realtà limitate.

Probabilmente la difficoltà di accesso di un tempo, fin nei primi approcci, produceva una selezione naturale. In altre parole i principianti di ieri non erano dei praticanti qualsiasi ma appartenenti inconsapevoli e potenziali di una vera elite. Un ambiente nel quale da subito emergeva chi aveva la stoffa per continuare, dove non esisteva certo lo spazio per le bugie commerciali che vendono false speranze di campionismo agli sprovveduti.

Tutto questo fa pensare che se il sistema fosse orientato a valorizzare competenze e rigore, piuttosto del prodotto commerciale, produrre il giocatore di medio alto livello risulterebbe possibile, ma il grande campione evidentemente no.

Pertanto, sono spiacente di comunicare a molti genitori, certi di avere fra le mani future speranze del tennis che le scuole per diventare campioni non esistono. Al contrario, esistono poche scuole per diventare campioni di se stessi. Realtà culturali nelle quali accede chi ha voglia di informarsi e, come si dice in gergo, di sbattersi. In altre parole, si tratta ancora una volta di una questione d’elite, ma questa è un’altra storia per una prossima puntata.

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