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Quanto l’insegnamento sia un’arte o una scienza è un tema che da sempre appassiona e fa discutere, non solo fra gli addetti ai lavori.
Attualmente, l’impostazione pedagogica dell’insegnamento viene legata all’apprendimento in una sorta di processo circolare.
Pertanto, se guardiamo indietro nel passato della scuola per arrivare fino ai giorni nostri cosa scopriamo?
E nel mondo del tennis?

L’insegnamento e l’apprendimento del tennis affondano le radici nell'età classica della disciplina, quando il gioco era vissuto come elemento coreografico, praticato da gentiluomini e da gentildonne. Il risultato e il concetto di vittoria era si importante, ma assolutamente a rimorchio di eleganza e stile.

Le prime scuole tennis nel continente europeo, Gran Bretagna esclusa, furono realizzate istituzionalmente in Francia, nella prima metà del XX secolo.
La “Divina” Suzanne Lenglen fu la fondatrice dell'iniziativa d'avanguardia. Il suo principale problema era però costituito dalla realizzazione di una metodologia e di una didattica funzionale.

Nel contempo, la questione era già stata affrontata con successo da un campione contemporaneo alla “Divina”, l’americano William  Tatem Tilden, detto Big Bill. Questo campione ha lasciato il segno nella storia ben oltre i confini delle sue straordinarie vittorie, divenendo il “Leonardo” dell’arte e della scienza del gioco. La Lenglen quindi, risolse il suo dilemma potendo contare sulle spalle di un titano come Tilden realizzando un proprio metodo illustrato nel libro: “La mèthode d’initiation au tennis de Suzanne Lenglen”.

Tuttavia, è importante evidenziare che il processo insegnamento/apprendimento si è sempre riferito a precise metodologie messe in campo dalla ricerca scientifica. Nel momento storico della Lenglen tutto il mondo accademico dell'insegnamento si riferiva al metodo comportamentista un approccio che faceva riferimento esclusivamente ai fattori “stimolo e risposta”.

La scuola comportamentista ha visto il suo sviluppo in cinquant’anni e precisamente dal 1900 al 1950 con lo statunitense Skinner l’inglese Watson e il sovietico Pavlov. Essa non ritenendo obiettivamente verificabili i fenomeni neurofisiologici ed emotivi che sottendono l’apprendimento, si occupa delle modalità con cui lo stesso si determina senza cercare risposte alla domanda come, ma solo all’interrogativo cosa.

Una concezione dell’apprendimento così intesa finisce col considerare in modo passivo il ruolo dell’allievo, mettendo soprattutto in rilievo l’influenza dell’insegnante che prescrive tipologia degli esercizi, tempi, spazi.

Si procede per tentativi ed errori sino a quando si trova la soluzione che verrà poi rinforzata. Pertanto anche le basi del metodo di insegnamento del tennis della Lenglen furono contagiate da questo orientamento.

Negli stessi anni Jean Piaget mette le basi del suo pensiero sull’apprendimento la così detta epistemologia genetica. Lo studioso svizzero evidenzia che il bambino non è un piccolo adulto e che il percorso di apprendimento è legato alla filogenesi e all’ontogenesi della specie.

In particolare Piaget parla di apprendimento attraverso l’adattamento all’ambiente che avviene attraverso l’assimilazione e l’accomodamento. L'assimilazione consiste nell'incorporazione di un evento o di un oggetto in uno schema comportamentale o cognitivo già acquisito. L'accomodamento consiste nella modifica della struttura cognitiva o dello schema comportamentale per accogliere nuovi oggetti o eventi che fino a quel momento erano ignoti.

I due processi si alternano alla costante ricerca di un equilibrio fluttuante (omeostasi) ovvero di una forma di controllo del mondo esterno. Quando una nuova informazione non risulta immediatamente interpretabile in base agli schemi esistenti il soggetto entra in uno stato di disequilibrio e cerca di trovare un nuovo equilibrio modificando i suoi schemi cognitivi incorporandovi le nuove conoscenze acquisite.

Piaget è considerato il precursore della scuola cognitivista che deriva da studi di psicologia e di neuro psicofisiologia. I più noti rappresentanti sono Anochin, Adams, Bruner, Asubel, Feurestein, Schmidt.

Per i cognitivisti è invece importante capire le modalità interne d’organizzazione, produzione e regolarizzazione di come si determina l’apprendimento. Per loro è primordiale ricercare e valutare i processi che il sistema nervoso mette in atto per realizzarlo, cioè le funzioni che chiama cognitive. Tra queste troviamo la memoria, l’attenzione, il linguaggio,la percezione, l’orientamento spazio-temporale, i tempi di reazione, le abilità motorie,il feedback etc.

Per la scuola cognitivista dunque fra il momento dello stato di necessità da soddisfare e la risposta, nel S.N.C. (Sistema Nervoso Centrale) avvengono processi di elaborazione il cui scopo è la scelta della risposta, la regolazione e la eventuale correzione nella fase esecutiva. Un processo, in sintesi, che ha origine dal centro di comando (cervello) che dispone di programmi motori decodificati, che poi si sviluppa verso la periferia del corpo.

Sempre negli anni sessanta quando furono tradotti in inglese gli studi del neurofisiologo sovietico Nikolai Bernstein (1896-1966) divennero centrali per l’insegnamento/apprendimento sportivo due questioni, i gradi di libertà del movimento e la sua ripetibilità.

Il problema posto da Bernstein costituisce tuttora un fattore di importanza centrale per gli scienziati che si occupano di apprendimento e di controllo motorio.
Il neurofisiologo russo dimostrò come un singolo addizionale (ridondante) grado di libertà possa indurre un infinito numero di scelte

Il gran numero di gradi di libertà del sistema muscolo-schelettrico esclude la possibilità di un controllo individuale su ciascuno di essi in ogni punto dello spazio e del tempo. Quindi il sistema biomeccanico è un sistema ridondante, il che significa che lo stesso risultato finale può essere ottenuto attraverso comportamenti con estrema variabilità articolare, muscolare. Conseguentemente la destrezza è possibile perché sono infinite le possibilità di movimento.

In sintesi, il pensiero di Bernstein pone in evidenza quanto la modificabilità dell’ambiente abbia un’influenza generale determinante e non solo sul movimento. Bernstein fu il primo a parlare “fisiologia dell’attività”. La tesi fondamentale di questa teoria è che la finalità ha un ruolo fondamentale nella fisiologia animale, ogni atto motorio volontario sarebbe diretto all’ottenimento di un determinato scopo (fine del movimento).

Nei successivi anni settanta grazie alle sollecitazioni di Bernstein prende forma il metodo ecologico ed i suoi maggiori esponenti sono Gibson, Turvey, Kugler, Kelso. L’approccio ecologico non ritiene necessario il ricorso a strutture mentali prescrittive: l’azione è direttamente disponibile per chi agisce nel proprio ambiente. In altre parole il sistema senso motorio possiede proprietà di autorganizzazione che non rendono necessario il ricorso ad un programma motorio centrale codificato.

Nel modello ecologico il S.N.C. non è regolato da specifiche leggi ma si sviluppa a partire da influenze ambientali sui gruppi neuronali che si specializzano su specifici compiti (Edelman, 1987). In questo approccio apprendere significa ottimizzare i processi percettivi e sviluppare la capacità di rispondere a questi stimoli con azioni adeguate (Gibson, 1986). Dunque l’interazione ambiente individuo, è centrale per questo modello di apprendimento/insegnamento.

La scienza ha riportato nella storia dell’apprendimento/insegnamento vari orientamenti che strada facendo hanno subito evoluzioni e cambiamenti. Attualmente gli indirizzi dicono chiaramente come gli aspetti ambientali e cognitivi siano di primaria importanza.

Pertanto, sorge spontaneo chiedersi quale sia il peso di questi fattori nell’insegnamento del tennis. Ricordiamoci sempre che il gioco del tennis è uno sport di situazione a compito aperto (abilità aperte), ad elevata difficoltà emotiva, cognitiva e coordinativa, dove l’obiettivo può essere raggiunto attraverso diverse soluzioni strategico tattiche.

Infatti da sempre i giocatori utilizzano, per vincere il punto, movimenti, azioni, comportamenti differenti (es. impugnatura, ampiezza del gesto, zona d’impatto, finale del movimento, etc.).

Chissà per quale motivo in molte scuole tennis di oggi vengono imposti vincoli biomeccanici ai movimenti degli allievi, come se l’ambiente fosse stabile e gli allievi tutti uguali . In altre parole pare che i movimenti a vuoto, presenti nelle scuole del passato impastate con farina “pavloviana”, siano tornati in auge in HD.

Noi riteniamo decisamente inadeguato questo approccio e auspichiamo che al più presto questa deriva Newtoniana abbandoni i campi da tennis per lasciare spazio ai principi di apprendimento di Bernstein e di Gibson.

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