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Il Calvino delle Lezioni Americane aveva la stessa leggerezza del ragazzo con la polo bianca ed i pantaloncini dello stesso colore. Aveva la stessa leggerezza della sua faccia da schiaffi, la stessa leggerezza del suo rovescio incantato, la stessa dei suoi gesti. 

Ispirava la stessa grazia del suo modo di coprire il campo. Con passi composti, naturali, flemmatici, cuciti e contati, uno per uno, sulla linea di fondo. Sembrava aver già dentro di sé il numero necessario di passi per arrivare su ogni palla con il minimo sforzo, correndo in maniera vera e propria solo se indispensabile, per il resto arrivando in perfetto orario all’appuntamento con ogni svolazzante diritto, ma soprattutto con ogni luminoso rovescio.

La leggerezza di un’indolenza da felino, da gatto che gioca col gomitolo di lana. Tra ogni balzo fulmineo una rete di movimenti continui, misurati, eleganti con cui ogni filo d’erba diventa parte del ricamo della partita perfetta, della partita che sarebbe vinta con chiunque, che non tiene conto degli avversari, solo dell’inesorabile schiocco della palla che si ferma lì, a mezz’aria, in attesa delle corde.

Il ragazzo pareva giocare quella partita per un’esigenza puramente estetica, per se stesso e per superare in perfezione il tocco precedente. Pareva giocare la partita in cui importa veramente poco chi c’è dall’altra parte. E così sarebbe dovuto essere, ma non quel giorno, che dall’altra parte non si poteva fare a meno di guardare. 

Dall'altra parte della rete un australiano con le ali alle caviglie, la ruggine ai capelli e il piombo al braccio mancino. Al contrario dei passi aggraziati, indolenti, ma sempre ricamati a misura su ogni distanza dell’altro, questo australiano correva, sempre. Correva maledettamente senza mai stancarsi, con un’energia quasi eccessiva per ogni sforzo richiesto. Avrebbe potuto raggiungere la palla anche due metri più in là di dove l’aveva raggiunta rispedendola indietro, sia ben chiaro, con lo stesso rivestimento di piombo di due metri prima. Il fuoco nelle gambe dell’australiano bruciava ancora dopo il quarto set, il ricamo si bruciava sul più bello.                                                                             

Sarà per un’altra volta, Nicola. Sarà per la prossima volta.
Laver batte Pietrangeli. Affronterà Fraser in finale.                                                                           
Il torneo era Wimbledon 1960.

Il ragazzo con la faccia da schiaffi ed il rovescio luminoso era Nicola Pietrangeli. Forse uno dei giocatori più leggeri di tutti i tempi. Leggero come nelle Lezioni Americane di Calvino. Dove la leggerezza “non è superficialità, ma planare dall’alto sulle cose, senza macigni sul cuore”. La leggerezza di una vita senza confini, tra Parigi (Roland Garros), Roma e Torino (Internazionali d'Italia), tutti titoli vinti due volte, Montecarlo (tre), le trasferte dell’amata Davis (120 partite vinte su 164) e un’infinità di viaggi.

La leggerezza di essere uno solo e chissà quanti altri, possibilità che un contratto da professionista con Kramer gli avrebbe negato (insieme alla coppa Davis). A contratto firmato, a dollari in tasca, sarebbe rimasto solo il Pietrangeli giocatore. 

E dove sistemarli poi, l’amico dei principi di Monaco, il personaggio televisivo, il conte russo decaduto, la promessa del calcio, il seduttore, l’eroe nazionale di Davis e tutti gli altri?

P.S.: Internazionali d’Italia 1961. Pietrangeli batte Laver.

 

Nicola Pietrangeli

 

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