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Io ho odiato quest’uomo.L’ho odiato per anni e con tutte le mie forze. L’ho detestato come si detestano i cattivi dei libri e dei film. Ho invocato influenze, nastri, gratuiti, scivoloni, miracoli e forfait. E non è bastato, tranne che per una volta, nel 2009. Sono piombati 13 infortuni diversi e non è mai bastato.

La carriera di quest’uomo la posso raccontare solo come chi l’ha vissuta dalla parte opposta.

Dalla parte di chi, tra aprile e giugno, ogni anno, vedeva puntualmente infrangersi ogni sogno di gloria, finale dopo finale. Dalla parte di chi lo vedeva come l’Anticristo, come rozzo e brutale, per cui il tennis diventava nient’altro che una lotta tra Olimpico e Titanico.

Tra il divino, trascendente, svizzero dal gioco talmente metafisico da non sporcarsi neanche i calzini sulla terra ed il selvaggio che nella polvere d’argilla ci viveva, che la respirava e su cui si rotolava.

Ho due poster nella mia camera, da anni ormai.

In uno, Roger sospeso a due dita dall’amato cemento di Indian Wells, con gli occhi fissi sulla pallina immobile ed il braccio teso, con l’espressione del filosofo assorto, dall’altra Rafa, non appoggiato, ancorato al rosso di Parigi, con quelle odiose canotte, quei pantaloni alla zuava e quell’urlo di Munch dipinto sulla faccia abbronzata.

Il tennis era l’eliminazione del mostro di mattone tritato, era il tentare ogni anno di far crescere erba inglese o almeno di colare cemento americano sul suo antro impenetrabile. Fu così fino a quando il mostro non uscì dall’antro e si prese sia l’erba sia il cemento.
E lo odiai ancora di più.

Poi il mostro diventò umano. Sembrò essere caduto sotto i colpi di un ginocchio troppo fragile. All’inizio ne sentii la mancanza, la sentii sempre di più fino a non capire che per anni avevo sbagliato. Che quell’essere che respirava mattoni in polvere non era un mostro, ma che anzi era addirittura umano come me. Che lo era anche di più.

Ne iniziai a comprendere l’umiltà smisurata, il lavoro massacrante e continuo, il coraggio e soprattutto la forza di non piegarsi a nessuna difficoltà. Ricominciò a vincere. Davanti ai miei occhi non c’era più il brutale ragazzotto in canottiera che provava a tirar giù a pallate la statua greca dall’altra parte della rete.

Davanti ai miei occhi c’era un campione, un esempio e molto di più. C’era un atleta-simbolo di una nazione intera.

Il velo era finalmente caduto (e la Nike aveva capito di piantarla con canotte e pinocchietti) e se prima facevo parte di quella categoria umana che rifuggiva ogni ripresa televisiva dello spagnolo etichettandolo come noioso, rozzo o monotono, ora lo osservo ogni volta che ne ho la possibilità.

Sì, osservo. Perché Rafa non va guardato in campo, va osservato. Perché, forse, più di ogni altro campione di pari (o quasi) rango esprime sul campo (meglio se rosso) semplicemente tutto ciò che è.

Attenzione qui. Perché il Rafa in campo e il Rafa fuori dal campo non esistono. Esiste solo Rafa.

Ogni singolo tic nervoso, ogni colpo e ogni spostamento sono una riflessione esterna dell’interiorità. Il lavoro umile e quasi maniacale portato avanti sul gioco a rete, che da punto debole è diventato uno dei più efficaci del circuito se rapportato al numero di discese, i passi da gigante al servizio (Rafapuò vantare uno dei kick migliori al mondo), la velocità ed esplosività impressionante di gambe e piedi anche a 30 anni. E di rovescio e dritto non c’è neanche bisogno di parlare.

Osservando Rafa si ha l’impressione che ogni gesto ed ogni comportamento, dal dritto uncinato alla dedizione al limite del possibile, al sorriso onnipresente anche dopo le sconfitte, alla disponibilità estrema, fino anche alle bottigliette d’acqua sia tutto parte di lui.

Ogni comportamento che sembra appartenere ad un Rafa esteriore (in campo) è talmente interiorizzato da diventare parte di sé; ogni lato del carattere che sembra invece appartenere ad un Rafa interiore viene espresso sul campo alla stregua di un colpo.

La sua migliore e più ampia espressione tecnica e umana è tra quelle otto righe. Quelle visibili, fisiche e quelle nella sua testa.
Rafael Nadal è in campo in tutti i sensi possibili. Semplicemente è come se non ne uscisse mai.

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