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Dovendo confessare la verità, direi che onestamente ho ben poco da scrivere. Nel mezzo della galleria di leggende di cui tento, da un torneo all’altro, di far intravedere le figure attraverso la feritoia dei 5000 caratteri, direi che ora mi sono fermato.

La mia unica possibilità di ripartire verso Church Road passa da Belgrado. Uno scalo affollato, soprattutto negli ultimi anni. Soprattutto negli ultimi giorni. Tutti a inseguire la coppa d’argento difesa dai moschettieri per sei lunghi anni, coppa che ora, insieme alle tre cugine anglofone, aspetta l’incisione del prossimo nome tra la Sava e il Danubio, tra il Partizan e la Crvena Zvezda.

Lo scalo è obbligatorio e, come in tutti questi casi, più affollato del solito. Soprattutto per chi come me, è ormai in ritardo. Hanno già spolverato il libro dei record, irrequieto da dieci anni, da quando la triade capitolina di quest’era tennistica ha iniziato a riaprirlo una settimana sì e l’altra pure.

La prima ad aver ricevuto una pulita è stata, non a caso, la pagina più polverosa di tutte: quella dei detentori, nello stesso anno (solare o meno) di tutti e quattro gli oggetti più desiderati dell’universo con racchetta. Su questa pagina c’erano solo due nomi, Donald Budge e Rod Laver.

 

La seconda pagina ha invece subìto parecchie rettifiche. Gli Slam belgradesi sono ora 12. E poi giù ancora, una pagina dopo l’altra. Career Slam, percentuale di vittorie sul circuito, somma di punti ATP, scontri diretti, settimane da numero uno, prize money. Non c’è bisogno che anch’io mi unisca all’esercito di spolveratori di record. Sarebbe inutile.

Finite le pagine del libro, molti (di solito i primi ad arrivare) si sono già fiondati sulla Germania, o addirittura vedono già le scogliere di Dover. Altri sono rimasti a curiosare per le strade di Belgrado, a cavare aneddoti da vecchie conoscenze, a dare l’ennesima scalata al monte Kopaonik.

Sono ovunque le foto della leggenda del presente con la coppa dei moschettieri a mo’ di biglietto di sola andata per la storia, di uno dei difensori più forti di ogni epoca, dell’indistruttibile superatleta dalle percentuali disumane, che se la cortina di ferro fosse ancora in piedi avremmo subito etichettato come costruito in laboratorio da qualche maresciallo Tito o affine.

Sono ovunque le immagini dell’eroe nazionale di una nazione in cerca di eroi, con la Davis e la bandiera, gli aiuti ai bambini e le tre dita alzate al cielo. Esattamente come troviamo da tutte le parti (nell’ordine) la guerra civile, il muro, la pizzeria, Gencic, Pilic, Ristic e il glutine.

I ricordi del bambino che alza esultando le stoviglie come fa quel Sampras in tv e il ragazzo magro che fluttua in una maglia del Partizan sono diventati parte del nostro immaginario, proprio come l’insopportabile biondo ossigenato con il naso a patata e l’instancabile maiorchino con la racchetta in mano e il pallone ai piedi. Fanno parte dello stesso strato di storie che potremmo definire come “cultura popolare tennistica”.

Aneddoti e ricordi trasfigurati uno slam dopo l’altro, fino a diventare le favole vere e proprie di quest’Era Open. I miti nascosti dietro la storia ufficiale fatta di risultati. Il lato umano di cui tutti siamo alla disperata ricerca. E si ritorna al problema iniziale. Niente pizze, niente muri e niente Kopaonik.

E la storia ufficiale parla da sé. I numeri sono impressionanti e consegnano Nole alla leggenda, consegnano una propensione alla vittoria come poche alla leggenda. Una tendenza a stabilire e raggiungere obiettivi che ha poco di umano.

Ma è stato già detto anche questo, come anche le critiche ad un gioco con un’efficacia di portata ingegneristica, mostruosamente intenso, ma non propriamente entusiasmante.

In pratica è stato detto tutto in men che non si dica. Persino che all’ accademia di Pilic diceva continuamente che sarebbe diventato il numero uno. E che gli altri ragazzi ridevano a sentirlo.

Chissà se stanno ancora ridendo.

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