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Tra pochi, pochissimi anni, tra molti meno di quanti crediamo, ci accorgeremo di aver sbagliato tutto (o quasi). Di aver preso la strada sbagliata e di averla percorsa correndo a perdifiato, senza nemmeno guardarci alle spalle, senza nemmeno provare a rallentare, con la sola, cieca voglia di andare il più veloce possibile. E scopriremo che forse indietro non si può più tornare o peggio, che non si riesce neanche a rallentare.

Le avremo volute noi, noi tutti e nessun altro, generazioni di bruti con racchetta inconsapevoli dell’essenza stessa del gioco che li riempie di dollari e che li manda in giro per il mondo, li avremo voluti noi, si, proprio noi, cosiddetti spettatori, cosiddetti “tifosi” i mercenari dorati senza bandiera dei quali lamentarci all’ennesima delusione e avremo voluto noi tutto il sistema che a questi ultimi ruota intorno.

Sarà colpa nostra la sete di un milione in più o di un titolo in più da aggiungere allo scaffale a qualsiasi costo. Peserà sulle nostre spalle e solo allora ce ne accorgeremo, l’esistenza di giochi diventati mercati azionistici e miniere d’oro e di sport a cui dare una pacca sulla spalla ogni quattro anni se tutto va bene, per poi ributtarli nel mare di sacrifici senza nome dove hanno vissuto fino a quel momento.

Ma per ora basta, vorrei che ci concentrassimo su due sole immagini, due sole tra tante.

Quelle di un giovanotto nero, anzi “negro” (nascere a Richmond nel ’43 non credo garantisse molti mezzi termini) sulla copertina di due riviste. Non riviste qualunque. La prima è su Life, numero del 20 settembre 1968. Il giovanotto veste i panni che nessun “negro” prima di lui ha vestito, calca l’erba che nessun “negro” ha mai calcato, gioca come nessun “negro” ha mai giocato. Ed è immobile, nella fotografia, con l’espressione di chi potrebbe star facendo qualsiasi altra cosa che non lo sforzo di correre dietro alla pallina su uno dei campi più temuti del mondo. Guardate solo la sua faccia. Potrebbe star passeggiando, o guardando la televisione, o leggendo, o tenendo una lezione universitaria, o un discorso in pubblico. Potrebbe.

Ma se allargate di nuovo lo sguardo al resto della pagina, i suoi occhi sono solo per la sfocata pallina di feltro bianco che galleggia poco al di sopra del nastro. A metà tra lui e l’avversario. Oltre lo strato compatto e ordinato di ricci che gli avvolge la testa guardate prima i suoi occhiali squadrati dalla montatura nera e poi soffermatevi (ci vorrebbero almeno dieci minuti di intensa osservazione, per i casi più disperati forse un’oretta potrebbe andar bene) sul suo abbigliamento. Il bianco d’ordinanza acceso al massimo della più sfolgorante semplicità che illumina ogni centimetro quadrato di cotone. Il tessuto che riflette una luce che potremmo credere propria della polo se solo non fosse per l’ombra leggera del colletto sulla spalla. Due bottoni su tre, l’ultimo solo aperto ed il ricamo discreto di un alloro britannico sul lato sinistro del petto, come sulla tasca destra dei pantaloncini. Né troppo corti, né troppo lunghi, con due minuscoli spacchi sui fianchi. Mai oltre il ginocchio, quasi a fasciare il quadricipite poco dopo la metà. Polsini di spugna bianchi, Wilson ancora di legno nel pugno destro e, per i più attenti, tra le maglie della rete, appena sotto il nastro, la data ed i 40 cents di prezzo, le ultime tre dita un calzino (bianco ovviamente) orlate da due sottili bande colorate, una rossa e l’altra blu. Al fianco del giovanotto il titolo recita, in inglese “La glaciale eleganza di Arthur Ashe”.

Troppo bianco per essere un simbolo della lotta per i diritti civili dei neri, tanto, troppo freddo ed elegante, troppo educato per fare il manifestante da piazza, troppo riservato per fare politica sul serio. Per altri non ha abbastanza di quella rabbia, di quella grinta che un campione è tenuto a dimostrare.
Sembra un professorino, sembra uno da country club. Di Malcolm X, per intenderci, ha molto poco. Nessun guanto di pelle nera serrato nel pugno sulla mano che vince a Forest Hills nel ’68.

La seconda copertina, su Sports Illustrated, lo ritrae in posa, con una coppia di Wilson di legno, stavolta senza occhiali, vestito di una giacca blu. Al centro del petto, sul bianco impeccabile della camicia, una cravatta regimental divisa tra il rosso e lo stesso, scurissimo blu della giacca. Sul lato sinistro, leggermente più in basso, uno scudetto a stelle e strisce con le tre lettere “USA” ricamate a filo rosso. Per i più attenti, una spilla d’argento a forma d’aquila appollaiata all’occhiello apre le ali sul blu del bavero.

Bene, una volta esaurito il vostro tempo di osservazione potreste aver capito o no il perché dare tanta importanza ad una polo, ad un pantaloncino, come ad un paio di occhiali o ad una giacca. Perché sprecare tanto tempo e parole su questa benedetta “gelida eleganza”. Perché?
Perché il bianco di certe polo ha stupito molto più di certi colori fluorescenti, perché il silenzio di alcuni ha fatto più rumore delle urla di altri, perché l’eco del sibilo di certi rovesci tagliati, a lungo andare, ha fatto più rumore del frastuono di tutte le racchette spaccate messe insieme.

La gente dimentica che è nel silenzio, nella riservatezza che si vincono le battaglie, con il lavoro silenzioso e lontano dai riflettori. La gente dimentica che la differenza tra il campione e il giocatore in realtà è poca, pochissima. Non è il talento, non sono i titoli, niente di più lontano. E non solo nel tennis. È una frase non detta, una maglia nel pantaloncino, un taglio di capelli che può non avere niente di speciale, un urlo ricacciato in gola, una chiamata non contestata. È l’eleganza non del gesto, ma dell’animo. La volontà ferrea, così facile a dimenticarsi, di voler essere un esempio.

E quando, una volta dimenticato tutto, un giorno, sui rispettivi campi da gioco sentiremo la mancanza di quel Facchetti sulla fascia o di quell’Ashe a rete, forse ci verrà voglia ridarli tutti, quei titoli e quei dollari, per quelle maglie nei pantaloncini, quelle parole non dette, per un po’ di quella gelida eleganza.

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